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Il Re Chicchinella e la bellezzitudine della forma falsa del vero

Emma Dante apre la Stagione del Teatro San Ferdinando di Napoli con Re Chicchinella

Re Chicchinella - © ph MasiarPasquali

Non credo ci sia stato, nella storia della parte di mondo che indegnamente occupiamo, secolo più dedito al teatro di quello barocco: patria di teatrali bugiardi, il Seicento, sempre pronto alla finzione e all’inganno sagace, si nutre di gran falsari che ancor oggi veneriamo, da Jago contraffattore dell’amicizia che immaginò quel gran bugiardo del Bardo là nella perfida Albione, al Don Juan adulteratore dell’amore diventato, da Tirso a Molière, addirittura proverbiale, al sofisticatore della devozione che fu Tartufo, ancora d’invenzione di Molière.

Il meraviglioso dell’epoca precedente cedeva il posto alla maraviglia, si cercava l’eroicomico anche nell’uso della lingua, in alternativa alla presunta ipotesi d’un monolinguismo linguale: a Napoli la novella – che già contiene in nuce il seme del teatro – diventava cunto, grazie a quel soldato e intellettuale, borghese titolato e uomo di mondo, amministratore e filosofo che fu Giovambattista Basile: il cunto è la negazione della novella boccacciana, perché se Boccaccio aveva scritto novelle piacevoli, per esorcizzare il male del mondo, Basile scrive cunte piacevoli per l’utema felicità del narrare, fine a se stessa.

I cunti, diversamente dal novellista fiorentino, non erano verosimili, appartenevano all’imbonitore, al venditore di fanfaluche, erano note faune, avise ‘mentare e gazzette ’n aiero, cronache di un altrove prodigioso e magico che si nutriva di falsità de chille appunto che solevano dire le vecchie pe trattenimento de peccerilli. E tuttavia, attraverso il falso, la patacca dichiarata, l’iperbole fatta regola, l’eccezione e la diversità dichiarata norma, s’afferma, paradossalmente, il vero, trasmuta quel che si voleva tener celato – per pudicizia, interesse, orgoglio – in palese apparenza, facendolo diventare reale e tangibile,  aperto alla partecipazione di tutti.

Perché, scritto in una lingua che è già teatro, Lo cunto de li cunti era destinato fin dall’inizio, in pieno Secolo barocco, alla lettura in gruppo, alla liturgia cortigiana, consentendo l’intervento di chi intendesse lanciarsi in questa dimensione che appartiene, di sicuro, alla categoria del dionisiaco.

Re Chicchinella – © ph MasiarPasquali

E, insieme, si ride. La risata è, in fondo, l’ultimo atto di un complesso itinerario che, stravagantemente, estrosamente, porta dritto dritto all’autenticità, all’epifania estasiata della certezza inconfessata. Così, vedi uscire, all’inizio, dal buio e dal silenzio – un silenzio infinito, prolungato, eccessivo nella meraviglia della sua ostentata solitudine, reso opimo e torpido dai pensieri e dalle attese – figure che di certo non appartengono al reale che tu ben sai: teste di gallina trapiantate su corpi di donne in gramaglie, prefiche che piangono una qualche morte che non conosci, la favola comincia e non ti accorgi che sei già salito anche tu su quel palco, parte di quella storia, anzi di quel cunto che non è altro che forma falsa del vero, accetti ormai il ricatto prepotente della bellezzitudine ricercata.

Scolpisce, la luce, quelle figure mitiche, come farebbe lavorando, quel diffuso bagliore, in  un quadro di Caravaggio, sapendo trarre la sua stessa linfa vitale, la sua prepotente e sopita vitalità dal nero incondizionato del fondo, quasi che la luce da quell’assoluta mancanza prendesse forza e vita, come uno sconsolato desiderio che mai non riesce ad appagarsi.

Pigolano, quelle oscene malcresciute pollastre, uscite da qualche laboratorio dove s’incrociano impunemente corredi cromosomici per generare malevoli mostri dell’anima, alzano il collo a scatti, guardando con l’occhio fisso il mondo e le cose senza averne, pare, coscienza alcuna, arretrano di fronte a una forma strana, sul pavimento che, dapprima, amebica e piatta, quasi confonde i suoi contorni nel buio assoluto dell’universo, poi pian piano prende forma, si alza, ne senti il flop che provoca alzandosi e chiudendo l’aria sotto di sé, acquisisce una riconoscibile apparenza di cono, sembra una gonna, lo è, alla fine, spuntano mani e testa, il torace, dapprima sembra anch’essa una creatura di Hieronymus Bosch, infine appare, dalla cintola in su tutto il vedi, il Re Carlo III d’Angiò, di cui un eccezionale Carmine Maringola s’incarica bellamente d’indossare carne e sangue ed ossa.

Si sveglia, Sua Maestade, al primo farsi della luce solare, capisci allora che quei mostruosi ircocervi dell’inizio, apparsi nel buio notturno, altro non erano che incubi generati dai timori inconsulti delle tenebre, eppure qualche fondamento l’avevano, in quel loro gallinaceo apparire e pigolare.

Perché Emma Dante apre la Stagione del San Ferdinando, qui a Napoli, con Re Chicchinella, che completa la trilogia basiliana dopo La Scortecata e Pupo di zucchero, rendendo protagonista questa volta nientemeno che Carlo III d’Angiò, re di Sicilia e di Napoli, principe di Giugliano, conte d’Orleans, visconte d’Avignon e di Forcalquier, principe di Portici Bellavista, re d’Albania, principe di Valenzia e re titolare di Costantinopoli, il quale, trovandosi nella impellente necessità di pulirsi le terga dopo aver soddisfatto un improvviso bisogno corporale, non trova di meglio di impiegare, per questo scopo, una gallina che crede morta ma che, invece, simile a un mostro fantasy, risale insidiosa e pungente le sue viscere regali, provocandogli un male dell’anima ogni volta che deve, per necessità, evacuare, ma regalandogli, in nome di un oscuro e ridente contrappasso, uova d’oro che non gli sono di alcuna consolazione ma che, occorre dire, fanno invece felici la segaligna regina, l’anglofona e raffinata principessa e tutta la gran corte di Napoli.

«In realtà quella di Basile è una papera, che si attacca alle chiappe regali – spiega Emma Dante in un’intervista pubblicata sul Corriere –. Io sono andata oltre, la gallina dentro rappresenta un male invalidante, che non si può estirpare. Un re disabile, solo e disperato, incinto di una gallina, ostaggio di una corte che lo considera solo per l’oro che produce. Una metafora sull’ottusità del potere. In nome dell’oro anche una gallina può diventare re».

Nella riscrittura della favola si specchia un mito antichissimo, legato alla figura del re ferito, cantato da Chrétien de Troyes, quella del re Pescatore che, menomato alle gambe, non riesce più a muoversi, la guarigione del re e il rifiorire delle sue terre ormai desolate avverranno solo grazie al ritrovamento del Santo Graal: qui, se pure del tutto diversa è la menomazione del re e il suo esito finale, identico è tuttavia il vissuto che si genera, perché una ferita, una menomazione, un imbarazzo che colpisce il re, il potere, non può non avere conseguenze su tutto il regno.

È una corte, quella del re Carlo, in cui vige un’etichetta piuttosto rigida cui lo stesso re, trappano e frugale, fatica ad adattarsi, rivestendosi del manto regale e della corona solo alla proclamazione dei suoi titoli, per il resto ci appare vestito unicamente dell’ampia gonna di cui dicevamo all’inizio; per contrasto le damigelle di corte, come la Reginella della canzone, parleno francese accussì e però, come le Ragazze Coccodè di arboriana memoria, gallineggiano da mane a sera, rese abnormemente sporgenti di coscia e, sedute su regali sedie di corte, sputazzano il prezioso cibo, sminuzzandolo ai quattro venti con il becco (pardon bocca).

Re Chicchinella – © ph MasiarPasquali

Una deforme e satirica applicazione di un malinteso cuius regio, eius religio, questa, che fa adottare all’intera sudditanza non solo religione ma pure atteggiamenti, tic, ossessioni che diventano mode, stili, conformismi: si nutre, non solo metaforicamente, questa corte dei miracoli, d’ingordigia furiosa che ricorda l’atavica fame napoletana, di rituali rinnovati, come la sofferta deposizione dell’uovo d’oro giornaliero, accolto da giubilo festante, di balli e feste allietate dalla musica di Stefano Landi, contrappuntistica e virtuosistica fin all’eccesso, in una sontuosità barocca che alterna elevata poesia alle più volgari sconcezze, in un continuo saliscendi tra alto e basso che disegna volute sinuose, svolazzi di piume, ostentazione e pudicizia.

Ciò che colpisce è, come sempre per le creazioni della regista siciliana, la potenza irrefrenabile dell’immagine, del reale nella sua forma imperativa, soprattutto del corpo, colto nella sua più tangibile, quasi impudica fisicità che tuttavia rileva, al di là di ogni sembianza, inaspettate fragilità e delicatezze, impensabili dolcezze dissimulate sotto il simulacro di una popolanità scontrosa e insieme voluttuosa, come il sesso, aspra e tenera al tempo stesso.

E pure il tappeto sonoro di questa breve pièce – tutta sensoriale, dunque – diventa importante come le immagini e i colori, dal pigolio quasi impercettibile delle donne gallina dell’inizio, al flop della veste del re, dal trascinarsi stridulo del carrello delle pulizie giornaliere al soffio ovattato dello sfigmomanometro, i rumori della vita fanno da sfondo alla parola detta, che s’incarna in una sorta di gramelot nutrito degli accenti del sud e di sonorità francesi, lingua che duttilmente trasporta, nel suo fluire scorrevole e senza inciampi, espressioni dal significato ampiamente variabile ma perfettamente comprensibile nella sua intensa espressività.

Re Chicchinella – © ph MasiarPasquali

L’architettura raffinatissima sapientemente mescola libretti popolari, reminiscenze classiche, spunti d’antica tradizione, chanson antiche e contemporanee, restituendoci così un mondo altro in cui nulla è ciò che appare, tutto – oggetti, arredi, simboli, uomini e donne – va incontro a progressiva ma invincibile, inarrestabile metamorfosi.

Così, alla fine, pur evitando il re di mangiare qualsiasi cosa, cercando di sfuggire l’inevitabile e dolorosissima evacuazione, si rassegnerà, tuttavia, vista la ferma insistenza di tutti, a trangugiare con voluttà, golosa e succulenta, un’oliva (di Gaeta) accompagnata da una fresella (di Gragnano), pantagruelico pasto che inevitabilmente gli gonfierà la pancia – visibilmente – e gli provocherà una colica indicibile.

Il medico, intervenuto con un forcipe, tenterà in extremis l’espulsione definitiva – una sorta di parto – della gallina, mentre ascoltiamo, significativamente, il lamento del Lascia ch’io pianga di Händel; ma questo provocherà, tuttavia, alla fine, solo la morte del povero re sfortunato.

Le sedie che prima erano servite alla mensa delle damigelle di corte tornano allora in scena sotto forma di inginocchiatoi, disposte intorno al corpo del re ne segneranno la tomba, arriva anche una croce con luci intermittenti: ciò che all’occhio nostro a prima vista appare per lo più come grottesca degradazione e deformazione, in definitiva è trasformazione, cambiamento di stato, passaggio ad altra forma che – chi può dirlo? – potrebbe esser perfino salutare miglioria.

E mentre s’alza il canto di Battiato che nella sua Passacaglia ci parla di continue esplorazioni, di antiche forme, di insegnamenti e trasformazioni dell’io, si compie, sotto il nostro diffidente sguardo l’estrema mutazione: gli inginocchiatoi, già sedie, diventano recinzione, la tomba del re pollaio, al posto del suo corpo sgambetta ora, viva e felice, una gallinella: può ben diventare re, il gallinaceo, se fa le uova d’oro, concludendo, con il Basile, che ogne ‘mpiedeco è spisso iovamiento. E questo ci sembra francamente molto saggio.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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il-re-chicchinella-e-la-bellezzitudine-della-forma-falsa-del-veroRe Chicchinella <br>scritto e diretto da Emma Dante <br>libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile <br>con Angelica Bifano, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Carmine Maringola, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Annamaria Palomba, Samuel Salamone, Stephanie Taillandier, Marta Zollet <br>elementi scenici e costumi Emma Dante <br>luci Cristian Zucaro <br>produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Carnezzeria, Célestins Théâtre de Lyon, Châteauvallon-Liberté Scène Nationale, Cité du Théâtre – Domaine d’O – Montpellier / Printemps des Comédiens <br>durata spettacolo 60 minuti <br>In scena dal 29 ottobre al 10 novembre 2024 Napoli, Teatro San Ferdinando, 31 ottobre 2024

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