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Carmen. Perché il faut méditerraniser la musique

Chiusura di Stagione al San Carlo di Napoli con Carmen diretta da Dan Ettinger, regia di Daniele Finzi Pasca

Carmen © Teatro di San Carlo Napoli - Ph Luciano Romano

Al teatro Bellini, qui a Napoli, faceva bella mostra di sé, prima dell’ultima ristrutturazione del foyer, una targa d’ottone che ricordava come Carmen, caduta a Parigi, fosse risorta in questa città, proprio in quel teatro: a quell’epoca, poco dopo la prima rovinosa all’Opéra-Comique, Bizet era già morto, a soli trentasette anni, tanto che la necessaria trasformazione degli interventi parlati, così tipici dell’opèra-comique e del Singspiel, nei recitativi accompagnati dall’orchestra, adottati nel resto d’Europa, fu completata dall’amico Ernest Guiraud.  A ben pensarci della storia del Teatro in musica tendiamo a ricordare più i fiaschi che i trionfi, annoverando, fra le opere cadute più o meno rovinosamente alla première, molte fra le più rappresentate, più di cent’anni dopo: noi, che di quei tempi siamo i posteri, siamo certo nella situazione migliore per giudicare e per concludere, più o meno amaramente, più o meno mestamente, che spessissimo cadono le opere più innovative, quelle che rompono con la tradizione, che consentono passi avanti, che escono dal consueto per offrire punti di vista nuovi.

Ed è così di certo pure per Carmen, oggi una delle più amate – e più rappresentate al mondo, insieme a Traviata, caduta anch’essa alla prova del palcoscenico – che qui a Napoli conclude, in questa splendida ottobrata che prolunga la luce dell’estate ben oltre il consueto, la Stagione qui al San Carlo: avrebbe dovuto esserci anche Annarita Marchi, stasera, nel Coro che tanta parte ha in quest’opera, così non sarà, ce lo ricordano due sue colleghe coriste all’inizio, già in abito da sigaraie, per rievocarne la figura e dedicare alla sua memoria questa serata, chiedendo a tutti un momento di silenzio, prima che tutto cominci.

È Dan Ettinger a dirigere l’Orchestra del Teatro San Carlo, con gran sicurezza e consueta baldanza, in una delle più difficili partiture da affrontare, piena di insospettì trabocchetti, a partire proprio dall’incertezza testuale, frutto delle vicissitudini che l’opera ha dovuto affrontare a partire dall’autografo e dalle trasposizioni, cui abbiamo accennato. La versione Guiraud determinò, in qualche modo, un modello che tuttavia andò in pezzi con la revisione critica del 1964 di Fritz Oesser che nelle intenzioni avrebbe dovuto render giustizia all’Autore, ripristinando le parti recitate, di fatto trascurando, tuttavia, le modifiche dello stesso Autore durante le rappresentazioni parigine. Il risultato è che, come in analoghi casi, non è possibile oggi definire qual sia l’autentica Carmen, lasciando che l’uso consolidi, nel tempo, l’opera perfetta.

A ciò si aggiunga che è, Carmen, opera in cui potente e ineludibile s’avverte la discrasia tra l’energico contenuto drammaturgico e le modalità stilistiche utilizzate per raccontarlo, eterna opéra-comique che non può far a meno di diventar tragedia, trascinando tutto e tutti nell’abisso. Lo avverti, tutto questo, fin dall’Ouverture, se, come in questo caso, chi dirige è capace di andare oltre il trionfo per orchestra che, da sempre, caratterizza questo topos della lirica, per farti assaporare sapore mediterraneo e contraddizioni del vano e dell’esistente: rifugge lo stereotipo, tuttavia, il Direttore, il primo tema festante ha suggestioni bandistiche nel ritmo forsennato che riesce, nonostante tutto, a tenuamente colorare, come attraverso una nostalgia sfocata, echi di paese, suggestioni e malinconie di luce e d’azzurro.

Il secondo tema, che inevitabilmente filtra attraverso il diaframma della vita militare di Don José, lo fa derivare, Ettinger, direttamente dal primo, quasi non fossero in contrapposizione, cercando uno le proprie ragioni nell’altro, tentando una (im)possibile quadra che in qualche modo, ignota e al tempo stesso pietosa, riesca ad evitar la tragedia incombente che il terzo tema s’incarica di rendere infine, tuttavia, presente e persistente. La scelta del Direttore, nel corso di tutta l’opera, seguirà il solco che questa esecuzione dell’Ouverture ha tracciato, una impraticabile – ma proprio per questo – fascinosa sintesi tra allegria e tragedia, sfuggendo il folclore e cercando invano una pietà che lenisce, che consola, che salva.

Carmen – © Teatro di San Carlo Napoli – Ph Luciano Romano

E l’esecuzione di tutti gli interpreti si situa anch’essa su questa linea. Aigul Akhmetshina è, senz’ombra di dubbio una credibilissima Carmen che si situa, tuttavia, lontana mille miglia dalla tradizione della zingara passionale e selvaggia: è una donna viva e vitale, sia sotto il profilo vocale sia dal punto di vista scenico, che vive in pieno le contraddizioni della contemporaneità, del resto avevamo già avuto modo di applaudire le sue doti di grande attrice oltre che splendida cantante nel ruolo di Elisabetta nella recente Maria Stuarda qui al San Carlo. Il personaggio esige personalità e oggi il mezzosoprano russo è il più richiesto per imprestare voce carne e sangue alla sigaraia sivigliana, rendendo a tutti palese quanto acuta sia la sua comprensione del personaggio espressa da una voce bella e appropriata capace di assumere sfumature tragiche e da una recitazione che ti fa dimenticare di stare, per l’appunto, recitando.

La Micaëla di Selene Zanetti acquista gradualmente sicurezza ed è con toccante delicatezza e spontaneità che ci offre un delizioso duetto con Don José. Di lei, Mimì nella Boheme di Emma Dante tre anni fa, avevano apprezzato il bel fraseggio, la voce dal timbro spesso bello e pieno e la recitazione misurata, sfrondata d’ogni superflua captatio emotiva, pur se avevamo notato come occorresse un tempo ulteriore per la piena maturazione. Ora quel tempo si è compiuto, basta osservarla nel terzo atto quando canta Je dis que rien ne m’épouvante con intensa sensibilità e musicalità accompagnata da un vellutato assolo di corno. Una performance, la sua, raffinatissima e commovente. Le amiche di Carmen hanno un ruolo non secondario nella definizione del personaggio, ne sono specchio e commento, coscienza e desiderio: Andrea Cueva Molnar incarna una leggera Frasquita con energia e precisione, cui fa riscontro la voluttuosa Mercedes di Floriane Hasler.

Di sicuro interesse è, poi, il Don José di Dmytro Popov, molto credibile sia musicalmente che scenicamente: la voce è chiara, ha coraggiosi slanci e accenti di una autenticità non ricercata, si accompagna ad una fisicità prorompente che non stona affatto nel delineare l’ingenuità e la sostanziale immaturità del personaggio, come Carmen ben lontano dall’appassionato e violento disertore della tradizione. Così, svetta il suo canto ne La fleur que tu m’avais jetée che non si risolve in un semplice esercizio muscolare ma si arricchisce invece di sottili sfumature. Non ci sorprende, poi, la solidità di Escamillo, reso con grande perizia da Mattia Olivieri che pure si era fatto notare, qui al San Carlo, interpretando Guido da Monforte nei Vespri Siciliani, per l’elegantissima linea del suo canto e la voce potente ed espressiva insieme: non possiamo che confermare quel giudizio lusinghiero. Il Coro, guidato dalla perizia di Fabrizio Cassi, in una col Coro di Voci Bianche diretto da Stefania Rinaldi, offre una prestazione di eccellente livello, evitando, anche in un’opera in cui il palcoscenico finisce per essere in tanti momenti sovraffollato, l’impressione di essere solo e soltanto masse sceniche, come una volta venivano chiamate, anche con una sottile punta di dispregio.

Carmen – © Teatro di San Carlo Napoli – Ph Luciano Romano

Segue, il regista Daniele Finzi Pasca, l’itinerario dei due protagonisti osservandoli nell’evoluzione tragica del loro amore, che – importante sottolinearlo – è fatalmente predeterminata, senza alcuna possibilità di poterla in qualche modo alterare: non è, Carmen, come spesso si è portati a credere, vicenda da ascrivere al teatro verista, il femminicidio al termine di una sorta di attrazione fatale che determina il dramma dell’amore tradito o non corrisposto. Si tratta, invece, dell’innamoramento e dell’amore che inevitabilmente falliscono perché fin dall’inizio legati, determinati, decisi da un destino già scritto, un Fato freddo e distante ha già gettato i dadi fin dall’inizio, e i due amanti – questo è notevole sul serio – vivono tutto ciò in piena consapevolezza, troppo distanti i loro mondi, troppo aspra la corda che li lega, tragedia non dell’amore ma dell’incompresa, inesausta, ineludibile passione della vita.

Ma, accanto a questo, l’insopprimibile, incontenibile, irresistibile esigenza di libertà, soprattutto di Carmen, crea un contrasto e una contraddizione difficilmente dimenticabile, fa del personaggio una sorta di pietra di paragone in cui specchiare il passato – non solo teatrale – da una parte e il futuro dall’altra, preconizzando donne che escono dal logoro cliché di mogli fedeli e madri intemerate per raccontarci un diverso modo di vivere la femminilità, vissuta con libertà che non si declina, al di là delle apparenze, in libertinaggio, ma in coraggio e forza, pronte a pagare un prezzo altissimo pur di conservare la propria coerenza e la propria moralità, pronte a non solo sceglier da sé il proprio divenire, ma crearlo per sé e per il mondo.

E il mondo guarda, come in sospesa attesa: come nel Tristan dell’amatissimo Wagner, Bizet costruisce un universo in cui deità beffarde osservano di nascosto e di lontano il mondo dei mortali, che si trovano travolti da forze a loro del tutto superiori, di cui sono consapevoli ma di cui non comprendono scopi, fini, motivazioni. È allora questo, senz’ombra di dubbio, il senso delle fredde luci che costellano il percorso drammaturgico che il regista mette in atto, con l’intenzionale complicità delle scene costruite con perfetta aderenza da Hugo Gargiulo: stelle indifferenti che di lontano guardano i mortali, sempre diverse nell’apparenza accattivante e sempre uguali a se stesse nella loro intima essenza, costruendo architetture che hanno apparenza umana pur senza esserlo, trappole aliene in cui lo sguardo si strania, la cognizione si perde, il dolore si anestetizza immergendosi in uno splendore anodino e vacuo.

È un mondo che ha abbandonato ogni naturalismo, rinunciando a qualsiasi possibile descrizione del paesaggio, procedendo per simboli ed icone, anche secondo un codice di colore che – stranamente ma non troppo – ricorda molto da vicino la teoria umorale di Ippocrate, riportandoci ad una visione ancestrale, perduta e remota, del mondo e delle cose. Così i primi due atti, quelli della nostalgica allegria dell’opèra-comique, hanno colori chiari, il giallo dell’innamoramento il primo, il bianco della pienezza dell’amore il secondo; colori scuri appartengono agli atti della tragedia incombente, il nero della tristezza vitale che descrive la fine di un amore, il rosso del sangue per il finale ultimo.

Carmen – © Teatro di San Carlo Napoli – Ph Luciano Romano

Luci, dunque, e colori che sono inevitabilmente commento e giustificazione, presagio e vincolo, descrivono, quei merletti sottili, quelle tracce che si agitano come ali di farfalla, un diverso punto di vista, anche le citazioni al colore locale presenti in partitura – una Spagna di sogno come la vede un francese – non sono mai puro decorativismo fine a se stesso ma vengono invece trasfigurate in senso teatrale, alla ricerca di una catarsi che il regista riesce a declinare, certo, in archi e portali di luce, vaghe citazioni di una paesanità senza tempo che appare tuttavia come sospesa, sempre sull’orlo di un abisso pronto a spalancarsi.

È, questa particolare scelta registica, in linea con il nietzschiano comandamento de il faut méditerraniser la musique, un profumo mediterraneo che non si nutre di naturalistici paesaggi ma anela alla melodia piuttosto che all’armonia, preferisce il canto all’orchestra, il sentimento al dramma e il cuore all’intelletto, ricerca la bellezza più che la cultura, la naturalezza disdegnando l’artificio, la solarità più che l’azione drammatica. Molto fece discutere, nel 2015, quando inaugurò la stagione del teatro nostro tra infocate polemiche, questo particolare allestimento di Finzi Pasca: si disse allora che troppo le luci del regista svizzero alle paesane luminarie somigliassero, dando un repellente gusto di sagra casereccia all’opera di Bizet, troppo indigesto da mandar giù, per non parlar della moderna stilizzazione d’icone e simboli, con quelle carriole dalla testa di toro che passavano e ripassavano attraversando la scena, oppure – questo, ricordo, fu ciò che più colpì la sensibilità del medio melomane – quei ridicoli tubi di luce – tanto somiglianti a tubi al neon – che venivano incessantemente, incomprensibilmente, inconsultamente (e senza permesso dell’autore e del librettista!) agitati da mimi e figuranti.

Il tempo passa, con ogni evidenza, e porta via con sé gran parte dei fraintendimenti, come relitti sul pelo dell’acqua, e ci ritroviamo, dopo qualche anno, a meditare su come possa variare, in ambito teatrale, la percezione del valore di una stessa opera, addirittura di uno stesso allestimento, col trascorrere del tempo e, insieme, col cambiar degli interpreti. Tutto chiarito, dunque? Passata ogni polemica? Non credo, perché dura è a morire quella certa ritrosia alla novità, quel non so che di snobistico conservatorismo – qualcuno perfino potrebbe insinuare – che naturalmente si connatura al pensiero del melomane, una sorta di vocazione alla coazione a ripetere che vorrebbe sempre riveder lo stesso spettacolo. È per questo, e così il cerchio si chiude, che Carmen cadde rovinosamente alla première: ed è tanto più bello, allora, godere dei molti applausi a questa allora bistrattata Carmen, mentre attendiamo conferme dal pubblico napoletano con la nuova Stagione che comincia. Già non vedo l’ora, Rusalka ci attende.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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carmen-perche-il-faut-mediterraniser-la-musiqueCarmen <br>di Georges Bizet <br> Direttore, Dan Ettinger <br> Regia e Co-creatore luci, Daniele Finzi Pasca <br> Scene, Hugo Gargiulo <br> Costumi, Giovanna Buzzi <br> Co-creatore luci, Alexis Bowles <br> Choreographies, Maria Bonzanigo <br> Carmen. Aigul Akhmetshina <br> Don José. Dmytro Popov <br> Escamillo, Mattia Olivieri <br> Moralès, Pietro Di Bianco <br> Zuniga, Nicolò Donini <br> Micaëla, Selene Zanetti <br> Mercédès, Floriane Hasler <br> Frasquita, Andrea Cueva Molnar <br> Le Dancaïre, Régis Mengus <br> Le Remendado, Loïc Félix <br> Une Merchande d’Orange, Silvia Cialli <br> Un Bohémien, Giacomo Mercaldo <br> Orchestra, Coro e Balletto del Teatro di San Carlo <br> con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo <br> Maestro del Coro, Fabrizio Cassi <br> Direttore del Balletto, Clotilde Vayer <br> Direttore del Coro di Voci Bianche, Stefania Rinaldi <br> Produzione del Teatro di San Carlo <br> Opera in Francese con sovratitoli in Italiano e in Inglese <br> Durata: 2 ore e 50 minuti circa, con intervallo <br> Napoli, Teatro di San Carlo, 29 ottobre 2024

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