[rating=4] Nell’ambito del Focus Premio Riccione, la compagnia piemontese under 35 Mulino ad Arte ha presentato, per la prima volta a Roma, “Due fratelli” (opera originale vincitrice del Premio Riccione 1999) definita dal suo autore, Fausto Paravidino, tragedia da camera in 53 giorni (compressi in un atto unico di circa un’ora), con le scene di Lorenzo Rota e le musiche originali di Mattia Balboni.
Il testo, frammentato in 23 quadri, si svolge interamente nella cucina (trascurata, a primo impatto) di un appartamento di una qualsiasi città e racconta la storia di due fratelli: il maggiore, Boris (Daniele Ronco), è timido, fragile e impacciato mentre l’altro, Lev (Jacopo Trebbi), appare subito sveglio e spietato; con loro convive anche Erica (Costanza Maria Frola), una ragazza sensuale e sfrontata, incontrata per caso, che cambierà le vite di entrambi; la giovane donna ha una storia con Lev, ma quando questi parte per il servizio di leva, Boris ed Erica hanno modo di scoprirsi a vicenda e tra loro nasce un legame sincero che porta una ventata di tenerezza nel clima teso e insopportabile fino ad allora respirato. Tornato da militare, senza preavviso, Lev capisce che la situazione gli è sfuggita di mano e la paura di perdere definitivamente il suo unico fratello lo spinge ad uccidere la ragazza, eliminando in tal modo l’elemento di disturbo in un rapporto (quello tra i due fratelli appunto) completamente chiuso e che non ammette interferenze e dentro il quale i due si vogliono isolare e difendere con ogni mezzo dal mondo esterno (anche dall’omicidio, se mai fosse possibile); ma questo microcosmo, dove la vita scorre senza gentilezza né collaborazione, al punto che l’analfabetismo emotivo si trasferisce dalle parole ai gesti e la violenza vive tra le righe e le azioni dei protagonisti, si rivela ben presto un castello di sabbia destinata a crollare.
I due fratelli si proteggono caparbiamente l’un l’altro, inizialmente è Boris, il maggiore, che cerca di mettere in guardia Lev e salvarlo dalle grinfie voyeuristiche della ragazza, ma poi alla fine sarà il minore che stenderà la sua ala “materna” sul fratello e sulla sua salute cagionevole, facendo ribaltare le gerarchie.
Lo spazio di scena è angusto (più che un appartamento sembra una prigione) e soffocante, come lo è il clima che si respira tra i personaggi: non riescono a parlare, né a dialogare civilmente, ogni loro parola è urlata, ogni gesto è frenetico e provocatorio e non serve nemmeno stabilire delle regole, quelle normalmente dettate dal buon senso e dal quieto vivere, perché ogni regola viene infranta ed è motivo di discussione. I tre sono palesemente figli della società del benessere, abbastanza istruiti, ironici e, a tratti, anche divertenti, passano il tempo in cucina, mangiucchiando qua e là, lavando qualche stoviglia e aggrappati al frigorifero sempre troppo vuoto; sono lontani da casa, privi di obiettivi anche minimi, non studiano né preparano esami universitari, non hanno un qualsivoglia impegno di lavoro, anzi sono dediti a fare i conti con la propria nullafacenza e con l’apparente mancanza di problemi da risolvere.
Si illudono di vivere una normalità idilliaca e la raccontano a sé stessi e alla famiglia che vive in un’altra città (padre, madre, sorella ed un cane o, forse, un gatto) in riva a un fantomatico lago, in realtà risponde solo la madre (a cui presta la voce registrata Laura Curino) con la quale comunicano attraverso audiolettere e la rassicurano con tante tenere e candide bugie; con questa invenzione l’autore esprime tutta “la necessità di questa claustrofobica autodifesa dei personaggi, nella loro ricerca della protezione del male che si traduce in dolore. E non lo si riconosce più come tale”, come ha scritto nelle sue note il regista Riccardo Bellandi (prematuramente scomparso proprio due anni fa).
La narrazione è scandita in quadri, come sequenze cinematografiche, dalle luci che creano bui istantanei e ripetuti, insieme ad una musica ritmata e penetrante a sottolineare le parole e i gesti degli attori, lasciando lo spettatore sospeso sull’esito della vicenda.
I tre attori, giovani e bravi, danno voce ai caratteri dei personaggi in un testa a testa incalzante che alterna i toni sommessi di Boris a quelli convulsi di Lev e alle battute provocanti ed allusive di Erica.
Il testo non lancia un messaggio, non parteggia, né distribuisce torti e ragioni ai personaggi, ma l’impatto emotivo rimane fortemente, lo spettatore è seduto realmente “nella” cucina in cui si svolge l’azione, è testimone diretto, colpito dal rumore di un piatto scaraventato a terra, dal profumo di un’arancia sbucciata o dal gusto inimitabile di una cucchiaiata di Nutella e non semplice uditore “protetto” dal distacco palco-platea, diventando testimone di una storia, inventata, ma comunque rappresentativa di una parte dei giovani di questo nostro tempo.