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Adulatori e cortigiani che cercano di arricchirsi, bramano il potere… Siamo sicuri che Diderot racconti la Parigi di fine settecento?

[rating=3] All’apertura del sipario dell’Arena del Sole si distingue fortissimo, prima che le luci svelino la scena, un odore di incenso che ammanta il pubblico. Eppure sia l’ambientazione in un’osteria (ben realizzata con una scenografia interamente dipinta su legno), sia i temi trattati sono ben lontani da quelli liturgici. Forse è solo un intelligente stratagemma per farci sentire adulati, compiaciuti, “incensati” noi stessi?

Un filosofo di nome Diderot passeggia immerso nelle sue elevate riflessioni, quando si imbatte nel nipote di Rameau, “uno dei personaggi più bizzarri di questo paese al quale Iddio non ne ha fatti mancare, un insieme di nobiltà d’animo e di bassezza, di buon senso e di follia”. Il dialogo che inizia fra i due parte dalla musica, Rameau è un famoso musicista, e tocca moltissime tematiche, fra cui la centralità del genio nell’arte e la figura dell’artista, ma anche il legame tra ricchezza e moralità, l’arte di arrangiarsi dell’uomo, l’adulazione, i valori da insegnare ai propri figli, passando per i racconti di vita vissuta del nipote di Rameau e tutti i mezzi che persegue per procacciarsi da vivere. Il suo “mestiere” è infatti il cortigiano, l’adulatore, che studia i gusti dei ricchi per assecondarli, le loro stranezze per osannarle, le loro ingiustizie per approvarle. Non stupisce che due personaggi così diversi arrivino allo scontro dialettico, il filosofo difendendo la morale ed elogiando i doveri dell’uomo, il nipote di Rameau evidenziando come il ricco non ha bisogno della morale, dato che appunto è ricco. La sua dissacrante analisi colpirà anche le scienze, come la fisica, la morale e la filosofia, percepite come lontanissime dal pensiero quotidiano dell’uomo: “bere buon vino, ingozzarsi di cibi delicati, darsi da fare con belle ragazze, riposare in letti morbidi. Tolto questo, il resto non è che vanità”. Interessante è vedere come si comporterebbe lo stesso nipote di Rameau se diventasse ricco: farebbe esattamente come le persone che è solito adulare, forse addirittura peggio, segno che questo comportamento è insito nell’uomo, e non vi è morale o scienza che possa estirparlo.

Ovviamente Diderot è dalla parte del nipote di Rameau, e infatti il filosofo in più di un’occasione non avrà niente da replicare al magnetico adulatore, tanto da trasformare spesso il dialogo in un vero e proprio monologo. Per “riequilibrare” le cose lo scrittore Diderot diede al filosofo il proprio nome (nel testo originale si parla di “lui” ed “io”), come a dire che ognuno, che si trovi di fronte alla realtà spiegata in modo così anticonformista e tagliente, si troverebbe impotente nel trovare argomentazioni convincenti.

Lo scoppiettante dialogo fra i due scaturisce in una fortissima critica alla borghesia parigina dell’epoca, accusata di essere come il nipote di Rameau la descrive, pur non avendo il coraggio di ammetterlo. Questo è il motivo che ha spinto Diderot a non pubblicare il testo ma anzi a nasconderlo. Verrà pubblicato postumo e in modo alquanto rocambolesco: Goethe ne creò una versione in lingua tedesca nel 1805, e ne modificò il titolo in quello che oggi conosciamo (il precedente era “la Satire seconde”, senz’altro più idoneo) ma purtroppo perse il manoscritto originale. Vari artisti confermarono di aver ritrovato tale manoscritto, ma si riveleranno soltanto traduzioni della traduzione di Goethe, fino a quando nel 1891 (Diderot morì nel 1784…) presso un libraio parigino venne ritrovato il manoscritto che da allora in poi è la fonte di tutte le traduzioni dell’opera nel mondo (ma sarà quello originale?).

Il testo proposto è rivisto rispetto a quello scritto da Denis Diderot, e qui si nota il grande lavoro di Silvio Orlando per renderlo più ritmato e comico, ma inevitabilmente meno poetico. Il dialogo ha battute molto serrate, ed è pieno di modi di dire, allusioni, sbeffeggi e definizioni, che lo rendono molto piacevole e leggero.

La versione originale contava solamente due personaggi, “lui ed io”, introdotti in un ambiente ricco di persone, i clienti dell’osteria, che partecipano, fanno da pubblico, ridono e prendono le parti di uno o dell’altro contendente. Nello spettacolo proposto invece si sono inseriti un musicista, una cameriera e il figlio del nipote di Rameau, che in realtà è un pupazzo. Tale inserimento dà la possibilità di visualizzare i racconti di vita del protagonista, che altrimenti sarebbero rimasti delle mere narrazioni, ma risulta forzato, specie per quanto riguarda il musicista e il figlio.

Silvio Orlando è convincente, balla, canta, imita scimmiottando, perfino si addormenta per farci percepire come dorme bene un finanziere a differenza di un pezzente, si prende gioco del filosofo (“avete fatto bene ad essere onesto, come delinquente siete pessimo”) restando sempre nel ruolo della perfetta canaglia.

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