[rating=3] Chissà ch’avrebbe pensato, il buon Luigi ch’eternamente riposa in Castell’Arquato, dell’idea d’ambientar la Tosca sua in un tempo per lui futuro? Morto nel ’19, non ebbe modo di veder le nere falangi appropriarsi prepotenti d’Italia, e della Roma dei Cesari e dei Papi far capitale d’impero effimero e fugace pur nell’oscura lor totalizzante voglia ed inesausta fame. Credo e penso, un poco conoscendolo come s’impara a comprender chi pur mai s’è visto in vita, dagli scritti, cioè, e dalle sbiadite immagini che a noi son giunte, che no, non gli sarebbe dispiaciuto per nulla, perché di questo trafficar col potere da parte d’uomini che fanno arte della vita loro, aveva un po’ il pallino, com’avrebbe detto lui: anche quell’altro libretto lì, che nessuno aveva avuto il coraggio di musicare finché non era arrivato il Giordano a farne l’irripetibile capolavoro d’una vita, quell’Andrea Chénier franzoso che tanto anticipa nei temi e nelle situazioni la romana Tosca, pur di questo investigava: il potere, l’uomo di potere, meglio, e l’arte, l’uomo artista, ancor meglio, a confronto sul comune e contenzioso e sdrucciolo terreno della donna, dell’amore, del sesso… nessun vincitore, par di vedere e di capire, tutti perdenti nel confronto, rinviando ai posteri, come si suol dire, la dura risposta.
Ed anche al Maestro, scommetto, non sarebbe dispiaciuta questa trasposizione in tempo altrui: primo perché d’ogni novità un artista non può ch’esultare, se coerente all’arte sua; secondo, perché certi temi, e si vede da ciò ch’è andato scrivendo in vita sua, Puccini li credeva universali, incarnandoli a piacere a Parigi, a Roma, ma anche a Nagasaki, nel Far West o nella Pechino fantasy delle imperiali gelide rampolle; terzo, ancora, perché alla comprensione del medio spettatore giova avvicinar gli eventi, renderli pane spezzato per cibar le masse: alzi la mano chi conosce il significato e la portata storica della battaglia di Marengo per il pontificio stato nel primo farsi del secolo romantico: meglio assai giochicchiar colle camice nere, i telefoni bianchi e un potere – e gli uomini che quel potere incarnarono – assoluto e incontrollato, che certo c’è di gran lunga più vicino e familiare (è questo io credo, come più volte ho affermato, il compito primo d’un regista, che traduca in semi di comprensibile cultura il frutto dell’autore, che a volte rischia d’essere indigesto): dunque, per questa rappresentazione di Tosca, qui al San Carlo, Jean Kalman cura la regia di una rivisitazione in chiave novecentesca, ruvida e torbida come quegli anni difficili e complessi, con la complicità delle scene di Raffaele Di Florio e i costumi di Giusi Giustino.
Molto ho gioito di questa Tosca, che veste – per il felice tramite d’una sempre attenta e splendida Fiorenza Cedolins – i panni d’una divetta del cinema in lino bianco e seta rossa, piuttosto che interprete di festose cantate per la regina Carolina: facile, in fondo, il trasbordo, vivendo entrambe – in partenza, almeno – d’un languido e inconscio attraversare il mondo senza coglierne l’innato e putrescente disordine, tra casette ascose nel verde bisbigliar di perfidi consigli, tra spavento e vanagloria gelosa indorata e – alla rivelazione – perplessa e attonita. Ne fa, la cantante friulana, un personaggio tragico nella sua disarmante incomprensibilità del secolo, confessando viver d’arte e d’amore, campionessa inconsapevole d’un estetismo che affonda le sue radici in sostanziale e bambinesca complicità con il potere, nella salomonica e artefatta separazione degl’ambiti, prendendosela alquanto con Nostro Signore al quale aveva sempre donato a piene mani: ingenuo e semplice il personaggio pur nella gran forza con cui proferisce simili empiaggini, come ben sapeva il più scafato Mario. Quando il potere farà breccia in lei e s’anniderà nel cuore suo a imputridirlo come verme fa col frutto, improvvisamente calerà il velo, e la buona Tosca che accendeva lumi alla Madonna arriverà ad uccidere. Certo, sarà per difendersi da vigliacca violenza, ma pur, e maggiormente, perché contagiata dal morbo orrendo del male. L’esaltazione folle e febbrile con cui segue, durante la vera e propria Trauermarsch ch’accompagna, vigila, ritmica e preconizza l’esecuzione di Mario e la sua morte, non è che preludio all’ultima metamorfosi: il gesto della Marianne raccoglie ed esplicita, riportando per un sol attimo il tempo all’origine di nostra santa contemporaneità, il senso ultimo del sacrificio e della morte, libertà che alcun potere straripante volgare e sciocco mai potrà scalfire.
Il buon Cavaradossi è interpretato con franca e veemente voce – come del resto si conviene – da Stefano La Colla: applausi per lui dopo Recondita armonia e, ancor più dopo E lucean le stelle: ma al di là delle essenziali doti musicali, drammaturgicamente Mario vien rappresentato giustamente per quel che è: eroe per caso, tien fede fino alla fine al suo ideale, che certamente era noto (un volterriano…) ma che non aveva fino a quel momento trovato modo di esprimersi in azione: è solo il caso che lo mette sulla strada d’Angelotti. Dunque veste egli i panni d’un artista inviso al regime, come color che in quel periodo rifiutarono una rigida irregimentazione entro i canoni fascisti, e ce n’eran tanti, pur non rifiutando il fascio l’arte moderna in toto, come invece accadde in Germania o in Unione Sovietica; tale differenza è giustamente colta dalla regia: l’ufficio di Scarpia è un trionfo d’art déco, e accanto alla sua scrivania campeggia la nuda Raffaela su fondo verde della bella Tamara, che è sì omaggio del lubrico e laido funzionario alle giunoniche e statuarie forme che lui sembra preferire, ma anche ad una star del panorama artistico del momento, certo non invisa al regime. Dunque Mario è da leggersi – nelle chiare intenzioni dell’Autore e della regia – come il prototipo politically correct dell’intellettuale dotato di anima e ideale, che è pronto ad affrontare la tortura e la morte all’occorrenza, cosciente, al contrario di Tosca, delle storture del mondo e di come porvi rimedio, fino a prova del contrario.
Del terzetto dei protagonisti Scarpia – un truculento e laido Sergey Murzaev molto apprezzato anch’egli dal pubblico – è certo il più interessante, perché si sa, il diavolo gode sempre d’ottima stampa e la rappresentazione del male è sempre più agevole per chi la fa, più divertente per chi la recepisce; ho apprezzato che Scarpia non indossi la camicia nera: non è un membro del partito, ma un funzionario della macchina statale; questa precisazione può sembrare inutile puntigliosità, ma è invece essenziale per la comprensione del personaggio: Scarpia (sia il papalino dell’originale sia il questurino della rivisitazione) è fondamentalmente ateo, non crede in nulla, né in Dio né nel Partito, come lo Jago con cui si misura egli stesso paragonando il fazzoletto al ventaglio, poco manca che professi anch’egli la fede in un dio crudel dal sapor di fango originario. Dunque, molto più modernamente, è perfetto esempio di quel che Hannah Arendt chiama, con felice e fortunata espressione, banalità del male, riferita a quel (reale) perfetto funzionario d’una impazzita macchina dello stato che fu Adolf Eichmann. Banalità del male che si esprime nell’accettazione del male (e nel suo contagio, come il mitologico untore) come fosse espressione d’una quotidianità non più stupefacente, dirompente ed esplosiva, ma cheta e tranquilla, banale, appunto, nel suo originarsi e perpetrarsi. Scarpia trova il fondamento di sua repellenza proprio in questa assolutamente irriducibile banalità: un po’ meno apprezzabili, dunque, taluni eccessi nella rappresentazione, come le cocottes, la cocaina, le dominatrici torturatorie, tutto un repertorio che magari potrebbe perfino essere plausibile ma che fa assurgere, in virtù della straordinarietà di tali particolari, la malvagità dell’uomo da ordinaria a eccezionale, da banale a unica e irripetibile: unico è il male, evidentemente, ma ordinario, per essere efficace, il modo con cui si manifesta e si riproduce.
Così, partendo da una spoglia e buia basilica di Sant’Andrea della Valle in cui è lasciato del tutto alla musica (non che sia male, per carità!) il potente architettar dell’energia vitale del Te Deum, specchio e paradigma della forza dell’Onnipotente asservito alle miserie umane, passando per i marmi e i detti déco del covo di Scarpia, dominato dall’aquila littoria indifferente alle passioni umane, s’arriva alla fine alla landa desolata e tragica dell’alba su una Roma assente e nulla che preferisce, evidentemente, essere altrove piuttosto che assistere all’efferatezze che si consumano in suo nome. Jordi Bernácer ha condotto l’Orchestra del Teatro con autorità grande, raffinatezza elegante e grande forza nella sottolineatura dei momenti drammatici. Il Coro, guidato con la consueta professionalità da Marco Faelli, è stato per l’occasione completato dal Coro di Voci Bianche guidato da Stefania Rinaldi. Alla fine, molti gli applausi per tutti da parte di una sala gremita: buon segno, credo, come già detto in altre occasioni, che la politica dei prezzi bassi sia premiante e permetta a tanti che non conoscono l’opera lirica di accostarsi al teatro e alla grande cultura.