Il linguaggio musicale di Salvatore Sciarrino si presta per propria vocazione a plurime e plurali interpretazioni. La sua musica è sempre sibilo, aria, soffio, vibrazione in apparente disordine, ma esplora con pudore reverenziale anche armonia e melodia, sfiora la grammatica tonale e approda spesso e volentieri all’atonalità e alle avanguardie. Non è accademia sperimentale ma è sperimentazione continua, in divenire.
Non bisogna aspettarsi né rumorismo, né dodecafonia, né serialismo, né atonalità. Non bisogna attendersi nulla che abbia a che vedere con scuole di pensiero, retoriche stilistiche o programmi di declamato rinnovamento.
Per quanto ermetica possa apparire la sua poetica, Salvatore Sciarrino ci propone uno stile inconfondibilmente personale, la sua cifra artistica, che si contraddistingue per una libera, creativa e fantasiosa giustapposizione di sonorità decodificate. Vibrazioni, soffi, glissando, graffi, percussioni e ogni altro tipo di suoni effimeri e sottili vengono impiegati con una costanza che non diviene mai stanca ripetizione.
I silenzi fanno naturalmente parte di questa famiglia di suoni fragili e continui, di una musicalità diffusa, aria in movimento, che allude al mondo extrateatrale, ai suoni che lo spartito non può catturare e che Sciarrino tenta di evocare anche attraverso strumenti inconsueti, strumenti nuovi o l’uso insolito di strumenti tradizionali.
“Ti vedo, ti sento, mi perdo. (In attesa di Stradella)” è lo straordinario nuovo capitolo della produzione operistica di questo grande compositore contemporaneo.

Il titolo dell’opera ci fornisce qualche ragguaglio sul contenuto. Alessandro Stradella fu un innovativo, geniale e determinante compositore di epoca barocca, che incarnò un vero e proprio fermento di innovazione artistica e che influenzò colleghi della generazione successiva come Corelli, Vivaldi e Handel. Eccellente madrigalista, noto compositore di cantate, mottetti, oratori e sonate, celebre autore di intermezzi, arie, prologhi e opere, il suo genio lambisce argomenti sacri e profani con eguale maestria. La sua vita privata, al pari di altri eccellenti italiani (nell’opera stessa si cita il paragone con Caravaggio), è invece un labirinto di bassezze morali e di viziose licenze.
Fu amante di principesse e regine, libertino e faccendiere, quasi sempre in fuga dalla legge, dai creditori e da mariti gelosi. Più volte braccato e più volte ferito in combattimento, visse la galera, l’esilio e la fuga. Ma fu anche rispettato e rinomato artista, apprezzato e riverito, accolto tra i grandi del suo tempo come un divo della musica.
L’insopprimibile passione per le donne altrui gli procurerà una morte precoce per mano dei sicari di un nobiluomo che voleva difendere l’onore della sorella. Nato a Nepi nel 1639 morì a Genova nel 1682, senza lasciare molte informazioni di sé, se non che qualche spartito e numerose leggende. Le notizie sulla sua vita ci provengono dal nipote del suo medico, il suo ritratto più antico è di due secoli successivo alla morte, di tante sue composizioni abbiamo solo il titolo e qualche impreciso riferimento.
La trilogia verbale “Ti vedo, ti sento, mi perdo” ha forse un duplice oggetto: sia l’uomo Stradella in carne ed ossa che l’opera, ossia la musica messa in scena.
I personaggi che cantano e recitano attendono lui, il prodigioso donnaiolo, che da Genova deve giungere a Roma con una nuova aria misteriosa. Nel teatro di palazzo di un nobiluomo si sta allestendo una cantata in forma scenica sul tema della musica e della seduzione nella quale sono citati i miti di Ulisse e le Sirene e del cantore Orfeo e, se da un lato il libretto è costellato di riferimenti mitologici e filosofici che ci descrivono il fondamento erotico della musica e del potere incantatorio dei suoni, d’altro canto i personaggi costruiscono continuamente un paragone con Stradella stesso: ad esempio, è lui forse una sorta di Orfeo dissoluto? L’allusione del titolo può dunque essere così risolta: vedere e sentire la musica e Stradella e poi irrimediabilmente perdersi, secondo il gioco dionisiaco che tanta letteratura ha ispirato.
La riflessione filosofica è onnipresente. Non solo esplicita nei riferimenti del libretto, ma implicita ad esempio anche nelle indicazioni di scena che vogliono una tripartizione dello spazio, dei personaggi e dell’orchestra.
La musica, l’uomo, l’incanto, la trinità. E tre sono per antonomasia i ruoli del triangolo amoroso: due amanti più l’antagonista, così fatale per il nostro Stradella.
Ovviamente l’opera è scevra da riferimenti esoterici o mistici, ma gli archetipi tradizionali affiorano costantemente. I servi che popolano la trama dell’opera sembrano caratteri da Commedia dell’Arte, il dibattito tra il Musico e il Letterato pare un tributo al vecchio espediente del dialogo filosofico, la stessa concezione dello spettacolo nello spettacolo fa il paio con la meta-teatralità che frequentemente compare nella storia della cultura occidentale (si pensi al “Maestro di cappella” di Cimarosa o a “Le convenienze e inconvenienze teatrali” di Donizetti o anche a “Capriccio” di Strauss). Le apparizioni del numero tre sono un riferimento alla numerologia, così come la citazione del “mistero” di Orfeo, tanto sacro agli antichi, lo è verso la concezione mistica del miracolo della musica e dell’amore, antidoti per l’anima contro la mortalità della carne umana.
Stradella non giungerà mai a destinazione. Mentre in scena si prova, si discute, si spettegola e si battibecca, il mito di Stradella cresce di particolari e si sostituisce al musicista. Un’assenza ingombrante, un vero e proprio convitato di pietra, per citare Mozart, altro autore caro a Sciarrino. Di Stradella resta la leggenda, parole e fatti riportati, che ne garantiscono l’immortalità.
Questa assenza è il pesante contraltare alla pletora di azioni che si svolgono sul palco, suggellato dai tanti silenzi e dalle tante vibrazioni sommesse che provengono dall’orchestra. La tensione drammaturgica, che sfocerà in tragedia, è un’antitesi scomoda allo svolgimento buffonesco dei dialoghi, ai turpiloqui e alle bisbocce che infuriano sul palco. L’attesa di Stradella dona senso ai personaggi ed è, in fin dei conti, attesa dell’appuntamento col destino. Nel mezzo, la meschina vitalità quotidiana.
La situazione storico-temporale funge da pretesto per una più ampia riflessione sulla vita. A Sciarrino è sempre caro il periodo barocco e spesso a personaggi di quel tempo egli ha dedicato i suoi lavori ed è dal barocco che egli quasi sempre trae ispirazione (“Morte di Borromini”, “Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria”, “Vanitas”, “Luci mie traditrici”, “12 madrigali”, eccetera). La filosofia dell’horror vacui, fondamento dell’etica e dell’estetica barocche, funge da naturale supporto alla messinscena firmata da Jurgen Flimm.
Il noto regista tedesco non segue le indicazioni di libretto con devozione pedissequa, ma si concede qualche fortunata libertà. La tripartizione dello spazio scenico non è rigida come apparirebbe nelle intenzioni di Sciarrino, ma piuttosto mobile ed evanescente, per quanto chiara. C’è un palcoscenico sulla sinistra cui corrisponde, sulla destra, un “dietro le quinte”, e davanti, sul “proscenio” in bellavista, tavolo e sedie per le discussioni filosofiche. L’orchestra suona una parte in buca e una parte in costume, tra il palco e i palchetti di proscenio.
La firma personale di Flimm è l’assenza di quinte e fondale, che abbiamo imparato a riconoscere negli altri suoi allestimenti scaligeri (in primis l’Otello di Rossini) e che amplifica il contenuto meta-teatrale dell’opera.
Altro elemento caratterizzante è la disposizione capillare e il movimento continuo di oggetti e di persone sul palco, proprio come uno spaccato di vita quotidiana nel momento di massimo affaccendamento.
L’allestimento, per quanto caotico, funziona, grazie anche ai bellissimi costumi di Ursula Kudrna che colgono l’essenza simbolica di parrucche, gorgiere, zimarre e paniers con colori sgargianti e mise provocatorie.
Interessante l’evocazione della gestualità seicentesca grazie alle coreografie di Tiziana Colombo, che vediamo dispiegarsi proprio sul piccolo palco che campeggia in scena.
Si esibisce sulle difficili note dello spartito un cast di giovani talenti. Campeggia la Cantatrice di Laura Aikin, che alla Scala era già stata premiata in Ariadne auf Naxos, Lulu e Die Soldaten per la splendida vocalità e la notevole qualità tecnica ed espressiva. Seguono il Musico, Charles Workman, e il Letterato, Otto Katzameier, entrambi attivi in un repertorio ampio e variegato a dimostrazione di grandi doti tecniche.
A chiudere il novero dei protagonisti principali sono i servi di palazzo che interagiscono, disturbano e collaborano con tutti e fra loro. I nomi sono esilaranti: Pasquozza, Chiappina, Solfetto, Finocchio e Minchiello, rispettivamente Sonia Grané, Lena Haselmann, Thomas Lichtenecker, Christian Oldenburg, Emanuele Cordaro.
L’allestimento impegna anche giovani cantati in erba: il Giovane Cantore è Ramiro Maturana, allievo scaligero, come sono allievi dell’Accadema del Teatro alla Scala Hun Kim, Oreste Cosimo, Sara Rossini e Francesca Manzo, inquadrati nel Coro insieme a Chen Lingjie, allievo del Conservatorio Verdi di Milano, e Massimiliano Mandozzi, al suo debutto nella sala del Piermarini.
L’orchestra, chiamata a sperimentarsi in questa ardua sfida, risponde eccellentemente alla bacchetta del direttore Maxime Pascal, un giovanissimo del podio. Nonostante l’età, Pascal vanta già un’onorevolissima carriera che l’ha portato a dirigere le più grandi orchestre nei più importanti teatri e che, oggi, lo vede debuttare alla Scala di Milano con grande successo di critica.
Pascal rispetta religiosamente la partitura eterea, eppure sempre fisica e materiale, di Sciarrino e con devozione scrupolosa ne evidenzia le energie soffuse e la plasticità dei suoni. Non c’è meccanicismo nei suoi gesti e nemmeno arbitrarietà, ma il giusto compromesso fra uno spartito assai complesso, la naturalezza dell’esecuzione e le esigenze del palcoscenico. A lui l’onore e l’onere di dirigere per primo al mondo “Ti vedo, ti sento, mi perdo” e di offrircene la prima interpretazione, col beneplacito del compositore.
Tiepida la risposta del pubblico. Per quanto la curiosità sia molta e le aspettative ben riposte, occorre ammettere che la musica di Sciarrino non si presta ad un ascolto disinteressato e disimpegnato. L’opera è un mosaico di riferimenti, di chiaroscuri, di rilievi e di pieghe che l’orecchio e la mente devono voler cogliere per poterne apprezzare l’organicità, che resta evanescente e insoddisfacente piuttosto che solida e compiuta. Non è divertimento, ma una predisposizione d’animo che si richiede, cui l’ascoltatore italiano e scaligero non è abituato ed educato.
Nonostante gli sforzi del Teatro e le numerose iniziative di musica contemporanea e dello stesso Sciarrino che hanno animato la vita musicale meneghina nelle ultime settimane, la sala del Piermarini resta semivuota. Forse una ghiotta occasione per gli appassionati e i cultori, che questa volta hanno ampie possibilità di accaparrarsi un buon posto ad un buon prezzo.