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Se la Norma acquista un Senso diventa metateatro

Il regista australiano Justin Way prova a metter in scena Norma nel pieno fulgore romantico

E così ancora una volta Norma torna ad immolarsi nel fuoco purificatore insieme all’amante Pollione da noi, al Teatro San Carlo di Napoli: val la pena ricordare come il capolavoro di Vincenzo Bellini sia stato rappresentato qui per l’ultima volta giusto quattro anni fa, nel febbraio 2020, ultima opera ad esser portata sul palcoscenico prima che i provvedimenti del lockdown impedissero di metter in scena alcunché per un lungo periodo di tempo. Furono, i teatri chiusi – e già sembra un’altra epoca – segno inequivocabile dei tempi nostri, segnando l’assoluta impossibilità (o incapacità) di celebrazione dello stare insieme: icona e insieme oscura e inquietante profezia di un futuro votato all’egotismo narcisista, di cui il far teatro resta il più sicuro antidoto.

In qualche modo, dunque, l’allestimento odierno chiude metaforicamente il cerchio, ci indica e ci ricorda il cammino percorso, rassicurandoci, anche scaramanticamente, sul futuro della teatro e della lirica e di quest’opera in particolare, da sempre così amata e, al tempo stesso, di complesso e difficile approccio, quasi dovesse scontare sulla pelle sua le contraddizioni che le derivano perfino dall’anno in cui vide la luce, quel 1831 così cruciale, secondo molti, per il passaggio tra modernità e contemporaneità. Non è certo un caso se Walter Benjamin, nei suoi incompiuti «Passages» di Parigi, cercando affannosamente di risalire alle eterogenee origini della nostra contemporaneità, indica per l’appunto quell’anno, il 1831, come il momento della nascita del privato cittadino, in altra parole del borghese moderno.

E pure lo storico inglese Eric J. Hobsbawm individua quello stesso fatidico anno, in cui Luigi Filippo, il re borghese, il Philippe Égalité della Révolution prende il potere, come definitivo spartiacque tra una modernità che arrivò fino alla Gran Rivoluzione e un contemporaneo ricco di contraddizioni, antinomie, inevitabili rincrescimenti che il suo Primo Ministro François Guizot risolse semplicemente con lo sbrigativo comandamento arricchitevi!. È l’uomo borghese per il quale, come dice Alessandro Baricco, furono perfezionate le idee di anima e di spiritualità romantica, quelle che noi ancora oggi difendiamo, perché borghesia e romanticismo sono l’una il contraltare dell’altro, è la concezione borghese dello Stato che ormai può perfino fare a meno dell’idea della regalità assoluta, indiscussa fino al secolo precedente: il romanticismo rivaluta il Medioevo dei Comuni e, per quanto riguarda il mondo antico, la barbarie contrapposta all’ordine e all’equilibrio romano.

Ecco venir fuori il sostrato di Norma: non la si comprende – e ovviamente neppure Vincenzo Bellini – se non si fa riferimento a questo background, al sentimento del tempo, al terreno di cultura in cui si sviluppò la sua composizione, in cui la storia – ormai usurata fin quasi a cedere, come l’amor di Pollione – si rivitalizza e si trasmuta in sfondo, ambiente storico, come allora si diceva, la pienezza della concezione della Storia nel Romanticismo, per l’appunto, in cui la storia dei singoli sia riflette e si riverbera nella più grande Storia dei Popoli. Non c’è più, in primo piano, il conflitto tra valori politici, non interessa più assistere a teatro all’incontro e allo scontro tra figurine che non son altro che allegorie di valori e virtù e che ad altro rimandano, nascono invece i personaggi con una loro psicologia, prevalgono i sentimenti sulla sfera della passioni pubbliche e politiche: Norma è, in questo senso, capolavoro romantico e borghese in cui convivono fervore patriottico, incandescenti passioni, decadimento etico e disinganno dei sensi, e non stupisce affatto che tanto possa esser piaciuta a Wagner, anche e soprattutto musicalmente.

Anche perché, come nel Gesamtkunstwerk del Maestro di Lipsia, soprattutto il personaggio della protagonista gioca su più piani narrativi, è sacerdotessa e madre, fedele figlia d’Oroveso ma pure donna dell’oppressore, politica adusa al potere e amante ormai logorata, pronta ad esser rimpiazzata da un giovane amore, la differenza con le piatte figurine monodimensionali del melodramma tradizionale è evidente nella sua abissale asimmetria, e poi la scelta – consapevole e coerente – di dar risalto all’espressione più che all’armonia, al dramma più che alla declamazione, con l’ovvia – per noi, non certo per i contemporanei – determinazione di dar vita a un’opera in cui i singoli pezzi, pur nella sostanziale persistenza delle forme chiuse, di fatto si pongono alla percezione di chi ascolta come saldati tra loro, un unico tappeto musicale continuo che possa creare più agevolmente scene, situazioni, quadri più ampi e articolati del consueto.

Permangono tuttavia le perplessità, soprattutto dal punto di vista drammaturgico e scenografico, a determinare un approccio che si fa vieppiù problematico e al limite della comprensione, e questo non sol perché, similmente a tante opere italiane romantiche, la vicenda che vi si racconta è quantomai illogica e in fondo irraccontabile, fatta più di temi forti – l’amore proibito e quello materno, la duplicità del vincitore, lo scontro di culture – che stentatamente si mettono in cerca d’una improbabile narrazione, benché servita – e questo a differenza di tante altre italiche sorelle – dai superbi versi d’un Romani in grande ispirazione, che qui tocca vette mai raggiunte; ma anche, e soprattutto, per la polverosità e grigiore dell’ambiente in cui è calata la vicenda, la Gallia romana che, tradotta in termini melodrammatici, si trasforma presto in scenari dipinti e natura impagliata, tra elmi e corazze da un lato e pelli d’orso e clave dall’altro, le buone cose di pessimo gusto uscite dal salotto di nonna Speranza che, certo, non ispira e non aiuta.

Norma

In epoca contemporanea, poi, il tentativo di camuffar la storia e la geografia, variando questa o quella o entrambe, come spesso la regia dei giorni nostri azzarda, per render più comprensibili ed appetibili per noi i patemi e i dolori di quasi duecent’anni, ha dato alterni esiti, con alcune luci e molte ombre, mai soddisfacendo appieno. Ci prova allora stavolta Justin Way, regista australiano al suo debutto sancarliano, con questo allestimento del Teatro Real di Madrid andato in scena per la prima volta nel 2021 – dunque in piena pandemia – nei modi e nei tempi concessi dalle necessità d’allora: ricorda oggi, il regista, di come sia nato, questo spettacolo, proprio nella cattività del lockdown, quando magari non si sapeva nemmeno se e quando si sarebbe riusciti nell’impresa di metterlo sulla scena, chiusi nel mistero e nell’incertezza dei tempi.

E immagina, allora, il regista, con la necessaria e fondamentale complicità delle scene disegnate da Charles Edwards e dei costumi ideati da Sue Willmington – ma anche di tutti quegli innumeri, sconosciuti ai più, che quei pensieri hanno fatto diventar tangibile materia – di riportarci tutti, come diventasse il nostro teatro una provvida macchina del tempo, a quel cruciale 1831 di cui abbiamo detto, che vide la nascita di quest’opera e del borghese moderno e del melodramma italico nella sua pienezza. A quell’epoca, ben lo sappiamo noi fin dalla più tenera età, era il lombardoveneto, dove la Norma ebbe i suoi natali, sotto straniera occupazione, gli austriaci, gli odiati austriaci con le loro bianche divise imperiali la facevan da padroni, gli italiani sognavano un’Italia libera e unita complottando rivoluzioni per lo più perdute: un mondo che, ripeto, ci è – ci dovrebbe – esser familiare, quello risorgimentale, anche perché più volte fatto rivivere grazie alla televisione o al cinema, chi non ricorda l’accendersi della passione proibita tra l’italianissima contessa Serpieri e il tenente Franz Mahler, bello e vigliacco, trasposizione filmica lussureggiante di un racconto di Camillo Boito operata, in Senso, da quel gran regista che fu Luchino Visconti, ricercatore come pochi di quel mondo perduto e decadente, romantico e fiammeggiante, mito fondante della Nazione, animato – e perso – da idee di anima e spiritualità romantica.

Immagina, poi, il regista nostro, a render contro della complessità del personaggio protagonista, esser Norma un’attrice, un soprano che non solo sia diva sul palcoscenico – impersonando la sacerdotessa gallica sulla scena – ma pure responsabile d’una Compagnia, capocomico, diremmo noi, e che poi abbia anche, com’è ovvio, un suo privato, vissuto dietro quel proscenio fatto di luci e applausi, una dimensione altra e sconosciuta a tutti: un amore proibito per un ufficiale austriaco, due figli nati e cresciuti in clandestinità, un futuro incerto insieme a un uomo, tra l’altro, sempre più distratto, forse addirittura da nuovi e più giovani amori. Sotto i nostri occhi si sviluppano così, paralleli ma più volte incontrandosi e scontrandosi – non sempre senza danno – due diversi livelli narrativi, la vita reale che vede gli ufficiali austriaci contrapposti ai teatranti italiani, gli oppressori e i vinti che inevitabilmente si confondono, sulla scena, con gli odiati Romani dominatori dei Galli adoratori d’Irminsul: la vita diventa teatro, ne permea significati e senso, aggiunge ulteriori corollari e incidentali, e urgenza, e, paradossalmente, sincerità.

Tuttavia, al di là di questa intuizione originale e tutto sommato corretta – e in verità, a dirla tutta, non particolarmente originale – non si costruisce una vera e propria drammaturgia, più che altro molto s’insiste soprattutto su una tenera nostalgia, vediamo l’orrifico festival del kitsch ottocentesco come trasfigurato dagli occhi del rimpianto, il rito del dio celtico diventa una tenera rievocazione di un tempo irrimediabilmente perduto, la memoria di ciò che fu si tinge inevitabilmente del colore délavé dei logori brandelli della malinconia, quasi duecento anni scorrono in prospettiva sotto gli occhi nostri. Va un po’ meglio nella seconda parte, perché la vita privata di Norma ci vien mostrata con tutta la carica di verità che spesso si nasconde sotto l’epidermica – e fuorviante – artificiosità della macchina teatrale: ci viene mostrato il retro – letterale e metaforico – del palcoscenico, una scrivania e una libreria sono l’ufficio del capocomico, Norma abita qui con i suoi figli, la scena, i dialoghi, la situazione potrebbero appartenere a Ibsen o Čechov, Pirandello o Eduardo, il dramma borghese abita qui, il principale merito di questa regia è – forse – di farci comprender fino in fondo quanto siano stati stringati e moderni Romani e Bellini, riducendo tutto all’osso di dialoghi scarni ed essenziali, tagliando via dalle parole e dalla musica tutto il superfluo, tutta l’apparenza inutile, tutto ciò che non serve, ecco il capolavoro, il segreto di durare duecento anni sulle scene.

Alla fine il rogo verso cui si avviano, nel finale, gli amanti riuniti dalla morte è il teatro, il teatro che brucia, il teatro distrutto dagli odi e dalle insipienze degli uomini e così, dissipato il fumo acre del rogo, al di là delle umane passioni e delle personali inadeguatezze, superate le incertezze registiche e le ingenuità pure inevitabilmente presenti, ti accorgi che è il teatro il vero protagonista di questo allestimento, il teatro che vedi farsi e disfarsi, lieve, davanti ai tuoi occhi, i commoventi sipari dipinti, le scene fragili e ingenue di cartapesta, le luci che incidono le espressioni, il teatro eterna bugia ed eterna verità, la polvere di palcoscenico che respirano bambini – nati qui dentro – che da grandi saranno attori, registi, scrittori, contagiati tutti dalla stessa malattia incoercibile e mortale, il teatro che imita la vita e la vita che cerca di emulare il teatro, il teatro indicibile e inesplorato spazio d’ineguagliate metafore, di gioco e trastulleria infinita – e d’infinito piacere – sul filo d’una metateatralità che è come un fiume carsico ch’appare e scompare per risorgere più oltre, sempre uguale eppure sempre diverso.

Resta negli occhi e nel cuore la sensazione d’idea registica sulla quale si sarebbe potuto lavorare molto di più e meglio, magari condendo la pietanza con un pizzico d’ironia, invece di fermarsi sempre sulla soglia d’un vorrei ma non oso che lascia, più che nostalgia, tanta malinconia addosso. E questo eterno barcamenarsi tra passato non ancora vinto e nuovo che fatica a venir fuori deve aver contagiato, in tutta evidenza, anche il cast musicale, sulla carta decisamente eccellente, importantissimo, come dice Justin Way, non ce n’è uno migliore al momento per questa specifica opera, a cominciare dalla direzione di Lorenzo Passerini, giovane musicista lombardo poco più che trentenne, che ci è parso guidare con fin troppa misura una partitura dal carattere così italiano e romantico insieme, a partire dalla celebre Sinfonia, eseguita con le mezze luci in sala accese (si accenderanno di nuovo, solo per un attimo, quelle mezze luci dei palchi, alla fine di Guerra, guerra! del Secondo Atto, l’intero Coro guarda fisso in platea) – ancora al di qua della quarta parete, confermando l’ottima intesa con l’Orchestra del Teatro San Carlo, già diretta recentemente in occasione di due esecuzioni in forma di concerto, Sonnambula e poi Rigoletto, entrambe viste con grande favore dal pubblico, che anche in questa occasione ha rinnovato il suo plauso al Direttore.

Certo, anche qui vale quanto detto per la regia, maggior coraggio nelle scelte avrebbe giovato, si è preferito ripiegare su un’esecuzione che potremmo definire musically correct ma che manca di quell’espressività che poi è, per l’appunto, l’anima belliniana. Lo stesso discorso può valere anche per il Coro, guidato da Fabrizio Cassi, diligente e pronto ma lasciato un po’ a se stesso sia sotto il profilo drammaturgico sia da un punto di vista musicale da regia e podio un po’ distratti. L’Oroveso di Alexander Tsymbalyuk è robusto e possente ma manca della ieraticità che il ruolo richiederebbe, mentre sostanzialmente corretta e adeguata ci è parsa, tutto sommato, la performance di Ekaterina Gubanova, Adalgisa misurata e gradevole.

Nei panni del Pollione austriacante Freddie De Tommaso, improvvisamente arrivato agli onori della cronaca un paio d’anni fa, quando ha dovuto sostituire Bryan Hymel in Tosca al Covent Garden, diventando il più giovane Cavaradossi in quel teatro: lo squillo non manca di certo, anche se spesso l’emissione ci è sembrata piuttosto forzata – da tenore d’antan –mostrando, soprattutto all’inizio, qualche incertezza di troppo. Anna Pirozzi, la Norma di stasera, viene indicata dal libretto di sala come il principale soprano drammatico italiano contemporaneo: e mi è parso che, per tener fede a tale icastico giudizio, il soprano napoletano, in scena praticamente dall’inizio alla fine, abbia affrontato un dei ruoli che furon propri di Maria Callas con la determinazione che le è propria, da sempre, solidissima roccia su cui edificare cattedrali di luce e musica, ma con un pizzico di fatica in più, in particolare all’inizio sugli acuti non proprio perfetti, proprio magari perché sentiva tal grosso peso su di sé, magari, per compenso, rifugiandosi in un’espressività inutilmente retorica. Ma si è dimostrata pure splendida attrice e primadonna, credibilmente assumendo su di sé un ruolo che, come abbiamo detto, è sfaccettato e complesso, ben diverso dal solito cliché da melodramma.

La recensione sarebbe finita qui, ma credo di potermi concedere una ulteriore licenza: non erano solo due i livelli narrativi, in questa Norma di iersera al mio bel San Carlo, ce n’era, a sorpresa, un altro, che concerne il mio sguardo di spettatore che scruta altri spettatori che guardano lo stesso spettacolo. Il pubblico che affollava il teatro era formato in gran parte da moltissimi giovani, ho saputo dopo scolaresche provenienti addirittura da Prato e Bari, non è certo la prima volta, ma stavolta la platea, tranne le ultime file, significativamente, era occupata da vecchi cinghialoni (cit.) boomers come me, mentre tutto il resto, palchi soprattutto, da millennials in jeans, un vero e proprio muro di giovani che, in qualche modo, sentivo respirare accanto a me, qualche volta perfino con qualche brusio di troppo, tanto da provocare i soliti – anche giusti, per carità – rimbrotti da parte di tanti, nel pubblico pagante.

Mi sono sorpreso più volte a interrogarmi su cosa potessero comprendere, di questa vicenda così antica – ma anche, come abbiamo visto, così contemporanea – portata in scena in modo così destrutturato, se volete, come potessero, se non preparati preventivamente, arrivare a capire certe sfumature, letture, punti di vista. Poi mi sono zittito da solo, nel momento in cui ho ricordato: mi sono ricordato del tempo in cui – avrò avuto la loro bella e incompresa età – rimasi folgorato, una rara sortita a teatro, un brano ascoltato per radio, qualcosa afferrato per caso in tv. Mi sono ricordato di quanto fosse difficile, per me allora, frequentar sul serio teatro e musica e come andassi saziando la mia fame solo attraverso i dischi (nessun DVD, all’epoca, e soprattutto niente YouTube) e, attraverso l’ascolto di quelli, immaginassi, e costruissi scenari, e avidamente sognassi un mondo altro: sì, è vero, per capire fino in fondo ci vuole tempo, e studio, e grande applicazione, e questo è il lavoro della mente e del cervello. Ma ci sono ragioni del cuore che la ragione non conosce, come diceva Pascal – vecchio al par di me – l’arte, la musica, il teatro, incessantemente si nutrono e vivono di misteri ignoti e indicibili, entrano dove vogliono, possiedono e conservano, sempre e intatta, la capacità intrinseca di folgorare: sì, in quei giovani mi sono rispecchiato, un giorno qualcuno di loro tornerà qui e ricorderà, ne sono certo, con tenerezza e nostalgia, la seduzione e la grazia di una lontana sera, a teatro.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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se-la-norma-acquista-un-senso-diventa-metateatroVincenzo Bellini <br>Norma <br>Direttore, Lorenzo Passerini <br>Regia, Justin Way <br>Scene, Charles Edwards <br>Costumi, Sue Willmington <br>Luci, Nicolás Fischtel <br>Norma, Anna Pirozzi <br>Adalgisa, Ekaterina Gubanova <br>Pollione, Freddie De Tommaso <br>Oroveso, Alexander Tsymbalyuk <br>Clotilde, Veronica Marini <br>Flavio, Giorgi Guliashvili <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Maestro del Coro | Fabrizio Cassi <br>Produzione del Teatro Real di Madrid <br>Opera in italiano con sovratitoli in Italiano e Inglese <br>Durata: 3 ore circa, con un intervallo <br>In scena dal 12 al 20 marzo 2024 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 12 marzo 2024

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