Apertura di Stagione coi controfiocchi al Teatro di San Carlo di Napoli: nella città della sirena Partenope, ma, deo gratias, senza alcuna allusione a recenti prodotti cinematografici, si mette in scena in questi giorni Rusalka, capolavoro che Antonin Dvořák compose nel 1901, una delle opere più amate e rappresentative del repertorio operistico ceco, basata sulla leggenda slava della ninfa dell’acqua Rusalka, che desidera diventare umana per vivere l’amore con un principe mortale.
Alla vigilia della première il Sovrintendente Stéphane Lissner ha dichiarato che per l’Inaugurazione della sua ultima Stagione al Teatro di San Carlo ha fortemente voluto Dmitri Tcherniakov, da lui considerato il più importante regista sulla scena della regia lirica contemporanea. E questo è avvenuto proprio quando Asmik Grigorian ha dato la sua disponibilità al regista: si è così verificata una straordinaria congiuntura artistica che ha permesso di costruire questa speciale produzione. Che vede, oltre ai citati, in scena due grandi mezzosoprano di rilevanza internazionale, Anita Rachvelishvili ed Ekaterina Gubanova, che già hanno dato ottima prova qui al San Carlo, e poi Adam Smith, recentemente definito come il tenore di cui parla tutto il mondo dell’opera, e un basso come Gabor Bretz di grande e riconosciuta fama mondiale: un cast stellare, dunque, che rende ragione del lavoro di un manager come Lissner cui bisogna riconoscere il merito, comunque la si pensi, di aver riportato il Teatro di San Carlo ai fasti della metà del Secolo breve, quando i maggiori nomi della lirica internazionale venivano a Napoli, artisti che ovviamente son quelli della contemporaneità, cosa che ai melomani, soprattutto nel caso di molti registi, proprio non va giù.
E tuttavia occorre, credo, farsene una ragione, anche nella scelta delle opere da metter in scena, a volte poco conosciute o non appartenenti al quieto repertorio fatto di Traviate e Boheme dal sicuro riscontro in botteghino. È anche il caso di questa sera, Rusalka non è di certo sconosciuta qui da noi, tuttavia appare allo spettatore italico troppo legata alla cultura boema, magari anche a causa di certe passate esperienze che ne hanno esaltato fuor di misura il sapore folclorico che di sicuro è presente, nell’opera, insieme, tuttavia, a molto altro: aveva cinquantaquattro anni, Antonín Dvořák quando tornò stabilmente nella sua Boemia nel 1895, un’età in cui è giocoforza fare un primo bilancio della propria vita; veniva dagli Stati Uniti, dove aveva diretto il Conservatorio di New York e composto opere famose come la Sinfonia Dal Nuovo Mondo, il Secolo Romantico aveva visto senza subbio la sua affermazione a livello internazionale, ovunque apprezzato per la sua originalità e la capacità di saper intessere, all’interno della più solida trama della struttura musicale del sinfonismo puro e di classico equilibrio formale, elementi che oggi diremmo di contaminazione, temi appartenenti alla cultura popolare che fino ad allora venivano per lo più snobisticamente considerati secondari o addirittura superflui, appartenenti a minoranze che, nell’approssimarsi dell’inizio di quello che poi sarà chiamato Secolo Breve venivano probabilmente ritenute destinate all’oblio.
In fondo è qui il segreto della longevità dell’opera, una delle poche del compositore boemo ad essere ancora in repertorio, nel giusto dosaggio tra mito e patrimonio popolare: e tuttavia proprio quelli che sono indubbi punti di forza dell’opera rimangono, a ben guardare, anche gli elementi di debolezza, la fiaba rimane quel che è, senza mai reclamare contenuti etici o civici, i personaggi si stagliano come figurine bidimensionali, silhouette che non hanno vera profondità psicologica, assurgendo al massimo a stereotipi indicando qualcosa che va al di là della nostra comprensione, anche il libretto del giovane Kvapil non riesce mai a creare una vera drammaturgia, stentando a costruire un intreccio teatrale valido.

Poste queste riserve, l’elemento fiabesco dell’opera, pur essendo predominante, può senz’altro lasciar spazio a una riflessione più profonda sull’identità, sul desiderio, sull’incomunicabilità, occorre che chi la mette in scena sappia porre il giusto accento sull’evidenza che Rusalka, pur diventando umana, rimanga tuttavia un’estranea, figura aliena che soffre d’ansia sociale, e come la sua condizione rifletta una lacerante esperienza di straniamento esistenziale. E credo che Dmitri Tcherniakov, che cura anche l’architettura della scena – avvalendosi tuttavia di una dramaturg come Tatiana Vereshchagina, che traccia un itinerario interiore che rende ragione della modernità di talune tematiche – sia riuscito nell’impresa di rendere più vicina a noi la figura fiabesca della ninfa delle acque che non riesce a diventar donna, rimanendo fedele allo spirito della partitura, che possiede una decisa identità lirica e allegorica propria del simbolismo europeo e dei movimenti tardoromantici, esplorando tuttavia, nel contempo, temi universali, che pure sono intrinseci all’opera, come l’amore, il destino e il rapporto tra l’essere umano, le forze naturali o sovrannaturali e la propria interiorità, pensieri ed emozioni che nascono, spesso violentemente, nel nostro io più segreto.
Le novità di questo allestimento, comunque la si pensi, sono molte, per ovvia comodità di esposizione il vostro recensore ve le riferirà suddivise in due distinti piani, quello più strettamente formale per primo e poi quello propriamente contenutistico, con la lapilissiana avvertenza che il tutto va a costituire un unicum non separabile, un oggetto artistico che, come vedremo, è anche, al contrario di molte soluzioni registiche degli ultimi tempi, perfettamente comprensibile da tutti e splendido sotto il profilo estetico, altri magari sono i problemi o, meglio, le discussioni che pur suscitare un tale approccio.
Per quanto concerne dunque il piano formale, l’allestimento scenotecnico, in altre parole, dovuto allo stesso Tcherniakov, la prima impressione, quando si fa buio in sala e parte l’Ouverture, è che si inizi, alla fin fine, con una soluzione ormai già vista e rivista in tante occasioni: su un velario nero che occupa tutto il boccascena si proietta un filmato, una scena, tra l’altro, che, se volete, a un livello epidermico tanto ricorda il recente film dedicato proprio alla nostra Parthenope, una ragazza in costume nuota nell’azzurro profondo. La scena non è, al contrario di quella di Sorrentino, presa dal vero, la ragazza ricorda nei tratti la nostra protagonista ma il filmato è costituito da tanti disegni ripresi uno dopo l’altro senza affatto cercare fluidità di movimento, non è un cartone animato, per intenderci, piuttosto l’equivalente filmico di una graphic novel, anche tenendo conto del tipo di disegno e dei colori utilizzati.
La cosa va avanti per un po’, dalla protagonista l’inquadratura si allarga ad altre ragazze, è una piscina, una squadra di nuoto sincronizzato, ci viene insomma raccontato l’abbozzo di una storia; l’autentica novità, che ti sorprende e un po’ ti sconcerta, è che alla fine dell’Ouverture quel nero velario non si alza, l’immagine si fissa sulla piscina, si apre su quell’immagine una finestra che ti permette di vedere i cantanti che iniziano la prima scena: l’intera opera è dunque trasformata in una enorme graphic novel, lo scorrere delle scene ci dirà che le finestre che ci permettono la vista dei cantanti possono avere grandezza e forma variabilissima, a volte con inquadrature audaci che riprendono solo le gambe, oppure altissime o piccolissime, stringendo su particolari, un volto, una mano, un coltello, la stessa funzione, insomma, delle vignette di un fumetto contemporaneo, rispondendo, come ci ha insegnato Alan Moore, al ritmo della narrazione, alle emozioni del momento, alle scelte del regista, contribuendo a mantenere sempre alta la tensione e l’attenzione, perfino la gestione dei sovratitoli rientra nel progetto, perché mentre la traduzione dal ceco in inglese è, come sempre, presente nel quadro dei sovratitoli sopra il palcoscenico, i sovratitoli italiani entrano a far parte della scena stessa, come didascalie delle immagini e delle vignette che vediamo davanti ai nostri occhi.
Se poi il regista/scenografo dovesse decidere di farci vedere il gran palcoscenico in tutto il suo splendore – è il caso di dirlo – si ritiene liberissimo di farlo, nel corso dello spettacolo credo avvenga due volte, che corrispondono ai due momenti in cui altissimo è il climax, nella scena centrale del ballo in maschera e nel finale ultimo: in questi casi, con mezzi apparentemente semplicissimi – fondali neri, quinte, barre di luce fredda o calda – che si muovono coerentemente nello spazio, descrivendo autentici moti dell’animo più che richiamando alla memoria simulate architetture, raccontando, insomma, più la storia e le storie che compitando una geografia di luoghi, riesce magistralmente a farci entrare pienamente in quel che si sta svolgendo davanti a noi, dirigendo a piacere il nostro sentire verso una più intensa vicinanza emotiva, o, al contrario, tenendoci a distanza, non permettendoci alcuna identificazione, oscillando, quindi, il nostro animo, tra partecipazione e straniamento, familiarità ed estraneità, poesia e prosa, allegria ed orrore.
Perché poi quel che si svolge sul palcoscenico non è affatto una fiaba: la drammaturgia, senza voler spoilerare alcunché, descrive una situazione di ripetuto abuso sessuale in una ragazza continuamente svalutata dai propri genitori, che, nel suo desiderio di acquistarsi finalmente un’anima e poter vivere tranquillamente un amore vero, incontra invece sulla sua strada un mondo di adulti predatori come il suo abusatore Vodník e spacciatori d’illusioni come Ježibaba. Ormai chiusa in un nevrotico mutismo, rifiuto della realtà, stordita dall’alcol viene investita dalla fuoriserie del Principe, cui lei affida cuore ed anima, potrebbe essere l’amore e, insieme, una speranza di cambiamento, ma sono ancora sogni ed illusioni, il Principe incontrerà la sua Principessa Straniera progettando di sposarla, lasciando Rusalka nella prostrazione più nera.
Nel corso della scena centrale, quella del ballo in maschera, a Rusalka, ignorata da tutti o osservata come un fenomeno da baraccone, non resterà che indossare, su consiglio di Vodník, un costume da sirenetta con tanto di parrucca argentata, la maschera è il passepartout che le consente l’accettazione da parte degli altri ma che implacabilmente la costringe nella sua condizione d’ansia sociale, in preda a una vera e propria tempesta emotiva bacia il Principe tra la costernazione generale, l’agitazione sfocia in una crisi convulsiva vera e propria. Alla fine, come tante volte succede, la vittima si trasforma in carnefice, grazie anche all’odioso Vodník la tragedia volge al termine, affondando per sempre nell’acqua, nello stesso elemento dove tutto era cominciato, sogni e illusioni di cambiamento.
Una forte intrusione nella trama originale, come si vede, che ne fa uno spettacolo avvincente e coinvolgente, le tre ore e mezza passano in un attimo – magari non ci sarebbe bisogno di due intervalli di mezz’ora – che suscita, tuttavia, forse più di altre volte, il forte interrogativo sulla liceità di una manomissione così profonda: la risposta, evidentemente, non c’è o, meglio, non c’è ancora, solo il tempo potrà dimostrare la validità di queste operazioni così radicali, quel che è certo è che della Rusalka originaria si è sicuramente conservato lo spirito e tutte le tematiche, arricchendole, senza omettere nulla, con nuovi contenuti e, d’altra parte, la struttura stessa dell’opera, con i suoi ampi squarci sinfonici e la sua esile drammaturgia si prestava molto bene a questo tipo di allestimento e di forte teatralità. Credo che, molto pragmaticamente, ogni innovazione si debba giudicare dal risultato, in questo caso, ripeto, mi pare abbia funzionato più che bene, l’opera lirica non è un quadro o un’opera di letteratura, è teatro che si regge, è sempre stato così, non sulla statica immobilità museale ma nella vita che sul palcoscenico sono capaci di infondergli chi ci lavora e lo fa, dal regista, al direttore fino ai singoli interpreti, in questo caso tutti all’altezza delle aspettative.
Cerca struggenti e penetranti splendori impressionisti nascosti nell’umbratilità sospesa di una partitura dall’esasperato lirismo, l’Orchestra del San Carlo, sotto la direzione ispirata di Dan Ettinger, (ri)trovandoli in una inusitatà profondità che sa restituire a chi ascolta il brivido e la commozione che, come perla rara, in quelle intensità cerca di occultarsi: una prova di più di come cresca, nel tempo, il dialogo e il confronto costruttivo tra il direttore e la sua orchestra, i cui non scontati esiti non possono che far bene al pubblico dell’antico Teatro. L’orchestra in Dvořák non è mai mero accompagnamento, ma assume un ruolo protagonista, contribuendo a definire l’atmosfera e a narrare gli eventi, sta a chi dirige far sì che questo non si trasformi in mero sinfonismo ma, al contrario, apra la strada ad un recupero d’una più alta e complessa teatralità in musica: bisogna dare atto a Dan Ettinger di essere riuscito proprio in quest’arduo compito, ieri sera, riuscendo a fondere insieme, in sempre precario equilibrio, dramma e musica in un insieme che, poi è, da sempre, tratto distintivo della grande opera lirica.
Ho poi notato, sarà solo una curiosità, che l’entrata del direttore con relativi applausi, che normalmente avviene dopo ogni intervallo, ieri sera si è verificata una volta sola, all’inizio, nelle altre due occasioni il direttore era già al suo posto, sul podio: è una piccolezza, io ci ho visto tuttavia una benefica e sana volontà di svecchiare, di abolire finalmente riti e liturgie che è bene vivano nel ricordo commosso di altri tempi, altrimenti finiscono per ingessarci in un inutile culto delle ceneri, malinteso senso della tradizione.
Il discorso sulla profondità e la complessa teatralità si applica, naturalmente, e forse a maggior ragione, al Coro del nostro teatro, diretto da Fabrizio Cassi, la cui voce ascoltiamo nel canto delle sirene e, soprattutto, nella centrale e decisiva scena del ballo: la forte liricità dei brani si sposa, soprattutto nel secondo caso, a un forte e decisivo impatto drammatico in cui poter mettere alla prova, oltre che potenza e abilità vocale, anche non scontate doti attoriali, la prova mi sembra si possa dire superata a pieni voti.
So che avete letto, a proposito di Asmik Grigorian, cose mirabolanti, di che gran cantante sia e che sopraffina attrice, pensando magari che tutto questo fosse un po’ esagerato, magari frutto dell’innamoramento di qualche recensore. Bene, ve lo dico in gran segreto: quel che avete letto è tutto vero, dalla prima all’ultima parola, la sua voce sa attraversare tutta la gamma dell’udibile, dal sussurrato alla potenza inimmaginabile che soverchia con tranquillità il suono dell’orchestra diretta da Ettinger, che in quanto a decibel non scherza per nulla, il timbro ha chiarezza giovanile appena appena tagliente, eccezionalmente focalizzato, più ricco nella parte centrale della sua estensione, ma che in alto penetra la luce stessa. Lo studio del personaggio, profondamente tragico, rappresenta scopertamente ciò che viene declinato di volta in volta in innocenza, desiderio, sacrificio, la metamorfosi in sofferta e anelata umanità diventa metafora della tensione tra universo naturale e mondo umano, tra desiderio di appartenenza e alienazione.
Così, pur con quella splendida e unica voce, preferisce, questo splendore vivente, tuttavia, privilegiare il dramma rispetto alla pura bellezza del tono, anche nei panni della donna contemporanea che affronta, tra ansie e angosce, in modo diretto le avversità, il risultato è commovente, riesce a turbarci con una interpretazione persuasiva che è fatta di lirismo carezzevole, empatia che conquista, raffinatezza e anche folle spontaneità che descrive, nelle sue mille sfaccettature, la tragedia di una adolescente, le goffaggini, le insicurezze, la lunaticità, le difficoltà affettive e sessuali insieme alle conseguenze dell’abuso, le nevrosi, le scontrosità, la rabbia, la violenza. Una interpretazione unica.
Il Principe ha voce, carne e sangue del tenore inglese Adam Smith che, in una recente intervista, ha dichiarato di essersi ben presto innamorato dell’opera ma, insoddisfatto dell’approccio adottato dalla maggior parte degli insegnanti di canto, decise di voler cantare come i grandi tenori italiani dell’inizio del Secolo breve: “Ho imparato di più da cantanti come Franco Corelli, semplicemente ascoltando il loro modo di cantare e cercando di capire cosa fanno”. Ne siamo felici per lui e anche per noi, vista la performance di stasera, impegnato in un personaggio che nelle sue contraddizioni finisce per rappresentare l’umanità con le sue grandezze e miserie, le sue passioni e i suoi limiti, fino al finale che lo rende figura tragica a sua volta, vittima sacrificale di forze oscure che si agitano nell’intimo.
Il suo Principe possiede una voce che, senza alcun apparente sforzo, riesce a risuonare libera e forte e incredibilmente dolce, una buona interpretazione che sa restituirci pienamente, per intensa tensione drammatica, un personaggio eternamente scisso tra autorità paternalistica e fragilità inusitata, probabilmente ritratto perfetto di una contemporanea forma di mascolinità.
La voce della “strega” Ježibaba è quella di Anita Rachvelishvili, come sempre incredibilmente profonda dalle mille sfumature: stile, musicalità, timbro colorato anche nei pianissimi, confermandosi di certo eccelsa interprete; è, il suo, personaggio della cultura popolare ceca, incarnazione della magia e del potere distruttivo, qui è nerissimo esemplare di come il mondo adulto possa profittare di quello giovanile spacciando sogni e illusioni, le sue scene sono contraddistinte da una scrittura musicale cupa e ironica, che sottolinea il suo potere e la sua ambiguità, impossibile non notare come la voce meravigliosa del mezzosoprano georgiano divampi letteralmente in alto e in basso e come interpretata da lei il personaggio sia letteralmente da brivido.
Credo che lo studio su questo personaggio possa tranquillamente essere portato a perfetto esempio della benefica mutazione della vicenda: ieri sera ho visto una Ježibaba difficile da dimenticare, e certamente questo è prima di tutto merito della grande interprete, tuttavia, senza nulla togliere al suo valore, se l’avessi vista negli improbabili panni di una strega da favola, avrebbe fatto più che altro “colore”, una figurina da album dei ricordi, nulla a che fare con il personaggio vivo e attuale visto ieri sera, segnando, secondo me, la profonda differenza tra due modi diversissimi di far teatro.
Avevamo già notato, nei panni d’Adalgisa qui al San Carlo, sostanzialmente corretta e adeguata ci fosse sembrata la performance di Ekaterina Gubanova, misurata e gradevole: non possiamo che confermare quell’impressione ritrovandola qui nei panni scomodi della Principessa Straniera, donna che rappresenta la passione e la seduzione, antitesi di Rusalka, vibrante, passionale, pienamente parte dell’umana società. È figura negativa, ma più per il suo ruolo nella trama che per una malvagità intrinseca, un ruolo che pur non essendo centrale nell’opera, diventa tuttavia cruciale per il conflitto e la tragedia finale, tant’è che la sua presenza è accompagnata da musiche intense, che riflettono la sua forza seduttiva.
La stessa correttezza formale vale per l’interprete del maligno Vodník, Gabor Bretz sa infondergli la giusta dose di cattiveria senza eccedere verso la caricatura, rischio più accentuato rispetto ad altre caratterizzazioni mancando qui l’ironia che invece è presente nella strega Ježibaba; mi è parso comunque perfettamente in parte, la sua voce è ben posizionata in ogni registro, una prova del tutto soddisfacente sia sotto il profilo musicale che sotto quello drammaturgico. Meritoria anche la prova dei comprimari: Peter Hoare e Maria Riccarda Wesseling ricoprono due ruoli di maniera, protagonisti di alcuni siparietti comici all’interno dell’originale Rusalka, rispettivamente quelli del guardacaccia e dello sguattero. La nuova drammaturgia, utilizzando com’è ovvio le stesse identiche parole del libretto e la stessa musica, li fa diventare i genitori queruli e anaffettivi della stessa Rusalka, riuscendo a indagare con successo il quadro fallimentare di una famiglia contemporanea, perfetto esempio di come una moderna – e geniale – regia a rappresentare sulle quattro assi del palcoscenico.
Alla fine, quando cala il sipario, scatta, come al solito ben organizzato, un principio di contestazione che tuttavia dura lo spazio di qualche secondo, del tutto soverchiato dai lunghi applausi per tutti, in modo particolare, com’è ovvio che sia, per le due regine dello spettacolo, Asmik Grigorian e Anita Rachvelishvili, perfino l’uscita del regista non produce alcuna contestazione. Rusalka ha vinto, su tutta la linea.