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Quella particolare occasione d’Un ballo in maschera

Torna dopo sei anni quest’opera verdiana al Teatro San Carlo di Napoli

Un ballo in maschera - © Teatro di San Carlo - ph Luciano Romano

Non c’è che dire, qui al Teatro San Carlo di Napoli la gestione Lissner ormai chiusa – ma tuttora operante nei suoi frutti postumi – ha sempre riservato, nel corso d’ogni Stagione, un bel regalino extra per appassionati e melomani, una particolare occasione per occhi, orecchie e cuore, potremmo dire, mettendo insieme alcune star della lirica internazionale in un lussuoso allestimento che guarda al grand-opéra pur senza esserlo: se l’anno scorso è toccato a Gioconda di Amilcare Ponchielli – la recensione è qui – andata in scena nell’aprile 2024, questa volta è Un ballo in maschera, programmato all’inizio di quest’ottobre appena un po’ piovoso, a chiudere in qualche modo in bellezza quest’ottima Stagione.

Tutt’altra musica, direte, la partitura nazional popolare del buon Ponchielli non si può paragonar di certo a questa corposa opera del catalogo verdiano, se pur a torto considerata per lungo tempo minore: tuttavia ben più d’una analogia lega le due serate, come vedremo. A cominciare dal direttore d’orchestra, che è lo stesso, evidentemente c’è una logica nelle scelte che impone la presenza di una mano forte e sicura in certe occasioni particolari: mi è venuto più volte di paragonarlo, Pinchas Steinberg, ieri, ad una roccia che non delude (quasi) mai, cui spesso mi sono aggrappato nel corso di una serata dalle molte contraddizioni.

A quasi ottant’anni, il gesto sempre misurato, riesce a infondere tutto sommato a questa partitura dalla scrittura musicale complessa e dagli ancor più ambiziosi propositi il giusto equilibrio di cui necessita, calibrando con un ideale misurino complicate coerenze drammatiche insieme a eleganti finezze orchestrali e poi sottili sarcasmi con profonde caratterizzazioni psicologiche: se allora, un anno e mezzo fa, alle prese coi limiti della scrittura ponchielliana, il risultato alla fine lo si poteva dire onesto e nulla più, qui, invece, proprio ciò che costituisce la pecca principale di questo grande professionista della musica – lo scarso feeling con l’opera italiana, tanto da far sembrar carenti passione e abbandono – riesce, per una fortunosa eterogenesi dei fini, a dar ordine alle dinamiche verdiane di quel particolarissimo periodo della parabola artistica dell’Autore.

Perché poi, ponte ideale tra la Trilogia romantica e quella che potremmo chiamare Trilogia della maturitàForza del destino, Don Carlo e Aida – quest’opera può dar gran piacere a chi ascolta, se correttamente guidato, grazie alle tante cose vecchie e cose nuove che si nascondono nel gran tesoro che è questa musica: certo, intendiamoci, non tutto riesce a perfezione, anzi, la comunicazione tra orchestra e cantanti non è sempre ottimale, gli attacchi slittano talvolta paurosamente, ma riesce, nonostante tutto, a guidarci, Steinberg, alla scoperta di queste gemme ancor grezze ma vitali, soprattutto nelle parti strumentali con cui è, in tutta evidenza, più a suo agio, con grande attenzione ai colori orchestrali che si avvalgono di impasti timbrici particolari – legni per i momenti leggeri o ironici, ottoni e percussioni per presagi e tensioni – fino a far diventare l’Orchestra vera voce interiore, di volta in volta sottolineando l’angoscia di Amelia, la leggerezza di Oscar, l’oscurità di Ulrica.

Come ogni occasione particolare anche questa ha le sue star: come l’anno scorso Anna Netrebko e Ludovic Tézier ne sono stati protagonisti, insieme a Piero Pretti, alla prima del 4 ottobre; anche il secondo cast, nella replica di ieri sera, tuttavia, in questo caso, era composto da ottimi professionisti, tutti molto ben conosciuti. A cominciare da Vincenzo Costanzo, che festeggiava il suo compleanno nel miglior modo possibile, debuttando nel ruolo nel Teatro che musicalmente l’ha visto nascere, da ragazzino nel Coro delle voci bianche: ho avuto modo di ascoltarlo per la prima volta una decina d’anni fa, sempre in questo Teatro, Pinkerton nella famosa Butterfly messa in scena da Pippo Delbono e già allora mi fece grande impressione la voce potente dal colorito brunito e dal bello squillo.

Pregio che ha mantenuto e decisamente migliorato nel tempo, Riccardo è un ruolo con richieste notevoli e dalle molteplici insidie e Costanzo mostra di saperle affrontare, se non tutte, almeno la maggior parte, uscendone spesso vincitore: è di certo autorevole ed energico, il personaggio, come ha da esser un re – o un governatore, pardon – ma anche lirico e delicato, nobile e ironico, mescolando insieme eleganza, autorità, passione, con declinazioni sia brillanti che tragiche.

Ebbene Costanzo – applauditissima La rivedrò nell’estasi che in fondo è presentazione ed estrema sintesi del personaggio –  mostra di avere i tratti per offrire un Riccardo convincente sul piano della potenza vocale, molto meno, purtroppo, su quello della sensibilità e dell’approfondimento psicologico: magari avrebbe potuto dare di più se opportunamente guidato. La gran pecca della sua interpretazione, purtroppo, non riguarda infatti tanto la voce quanto il profilo drammaturgico: la direzione registica, nel suo caso come per gli altri interpreti, Coro compreso, è del tutto assente o addirittura controproducente, sa di vecchio e retorico, tutti vengono abbandonati un po’ a se stessi.

Un ballo in maschera – © Teatro di San Carlo – ph Luciano Romano

È il caso anche di Oksana Dyka, anch’essa dotata di uno strumento ampio, con squillo potente e capacità di farsi sentire anche sopra l’orchestra: sul palcoscenico l’impressione è di grande solidità e sicurezza e pure di estrema pulizia e precisione sia negli acuti, pure quando lo spartito lo richiede con vigore, sia nel registro medio-grave, nei recitativi e nelle transizioni.

Rifulgono, allora, queste caratteristiche, nel momento di più grande pathos, Ma dall’arido stelo divulsa riceve grandi applausi meritati, grazie alla sua capacità di scendere nei registri medi-gravi, di usare pianissimi, di esprimere timbro scuro nel tempo supremo del dolore: se mai è proprio l’eccesso di queste qualità a risultare, in qualche caso, deleterio, dando l’impressione di una certa freddezza nel fraseggio, una qualche spigolosità di troppo nel passaggi acuti, una percettibile statuaria rigidità dove invece sarebbe richiesta morbidezza e naturalezza, difetti che non risultano del tutto superati soprattutto nell’interazione drammatica con Renato, vivendo alla fine il contrasto, il conflitto, il dialogo con poca credibilità.

Da parte sua il Renato di Ernesto Petti riesce invece a mettere in evidenza tutte le patenti contraddizioni di un personaggio che vive fortemente la tragicità della discrepanza tra il suo senso morale e l’errore che compie: baritono emergente sulla scena verdiana, lo abbiamo già ascoltato con grande interesse qui al San Carlo nel Samson et Dalila del 2022 e poi nella Butterfly “turca” secondo Ozpetec del 2023, le cui recensioni sono rispettivamente qui e qui.

In entrambi i casi notammo la voce bella, ricca e sonora che sovrastava spesso anche l’orchestra, dove altre non potevano e poi le spiccate doti interpretative: così ieri sera Renato non era solo un marito tradito e arrabbiato, il suo Eri tu è riuscito a farci sentire l’amicizia tradita, il dolore, perfino il rimorso, cercando e trovando in questa che è senz’altro l’aria più famosa dell’opera e una delle più riuscite per baritono all’Autore – e sì che ce ne sono di memorabili – la perfetta quadratura del cerchio, la sintesi perfetta dell’intera opera, la ricapitolazione del bene e del male, del gioco complesso fra verità ed apparenze e tra commedia e tragedia che caratterizza questa partitura.

Accanto alla triade dei protagonisti occorre citare almeno le interpreti dei due personaggi outsider di quest’opera, entrambe al debutto sancarliano: la veggente Ulrica e il paggio Oscar sono figure concepite da Verdi per caratterizzare i poli opposti di questa tragicommedia, rappresentando la gravità, il peso, l’oscurità, la luna, l’ambiguità la prima, la mobilità, la leggerezza, la luce, la solarità, la franchezza l’altro. Elizabeth DeShong è mezzosoprano americana di grande versatilità, nota per la sua presenza scenica e intensa musicalità: porta in dote alla sua Ulrica un registro grave molto credibile pur se non scurissimo, con corpo e profondità che si traducono in autorità vocale e sonorità inquiete; interprete intelligente, attraverso l’uso drammatico del canto e una notevole attitudine scenica, è presenza, sguardo, ambiguità, capacità di creare atmosfera.

Lo scattante Oscar di ieri sera, una sorta di folletto fulmineo e brillante era, en travesti, Cassandre Berthon, soprano lirico-leggero con solidissima formazione in parte mozartiana in parte da opéra comique: ieri sera abbiamo visto – e ascoltato – fraseggio agile, scintillìo vocale con sortite, effetti virtuosistici, momenti quasi luminosi pur considerando la fragilità della voce, che soprattutto negli insiemi tende inevitabilmente a perdersi, un’interpretazione che tuttavia non scade mai nello stereotipo, riuscendo nell’impresa di farci percepire la consistenza umana che può avere anche Oscar, un po’ spettatore, un po’ complice del dramma.

Un ballo in maschera – © Teatro di San Carlo – ph Luciano Romano

Il Coro, diretto con la consueta professionalità da Fabrizio Cassi, non è, com’è ovvio, in un’opera come questa, semplice sfondo ma invece parte attiva nella drammaturgia, di volta in volta passando attraverso il ritmo vivace e le armonie trasparenti dei cortigiani al tono cupo e popolare dei seguaci d’Ulrica alle omoritmie marziali e minacciose dei congiurati: non sempre tutto è andato liscio in quanto a puntualità e attenzione, mantenendo tuttavia chiarezza e forza senza perdere ritmo, anche se certi movimenti di accompagnamento – quasi un balletto – imitando l’onda funesta o la rabbia dei venti mimando Di’ tu se fedele ce li saremmo volentieri risparmiati.

Discorso analogo anche per i giovani ballerini della Scuola di ballo, diretta da Clotilde Vayer, su coreografie di Gino Potente: sebbene alcuni passaggi – in particolare il sabba orgiastico dell’abituro di Ulrica e la danza della maschere bifronti – siano risultati abbastanza suggestivi, tuttavia nel complesso l’impressione era che il sincronismo non fosse la prima preoccupazione e comunque non si è andati più in là, probabilmente anche per (non) scelta registica, di un mero decorativismo da ballo fastoso, con coreografie eleganti e costumi sfarzosi, che hanno creato uno spettacolo sontuoso ma piuttosto vuoto, con mera funzione illustrativa del dramma.

E questo ci porta naturalmente a parlare anche della regia, firmata da Massimo Pizzi Gasparon Contarini, che si confronta con un allestimento storico (quello di Pier Luigi Samaritani) del Regio di Parma del 1989: il contributo di Gasparon non è (non dovrebbe essere) una semplice riproposizione, ma una ripresa con elementi nuovi scenografici e drammaturgici, con l’intento dichiarato di “ritrovare la modernità attraverso lo stile e la tradizione”. In realtà, a parte il rifacimento completo dell’orrido campo del Secondo Atto e del ridisegno di alcuni costumi, la scena – e purtroppo la regia – si mostra in perfetta continuità con quella di Samaritani, di concezione già vetusta nel 1989, epoca in cui già si affermava uno stile registico molto più problematico, pur nell’ambito di quella modalità che potremmo chiamare – odio il termine ma ammetto la sua facile comprensibilità – “tradizionale”, ambientando, cioè, l’azione nell’epoca – fondali, costumi, trucco e parrucco – che il libretto prescrive.

E qui, in questo caso specifico, già si porrebbero problemi, dovendo scegliere tra la versione originale del regicidio “svedese” e quella imposta dalla censura che ambienta la storia in un’improbabile America: la prima opzione è oggi quella prevalente perché Verdi in trasparenza vedeva in Gustavo, re farfallone e leggero ma “galantuomo”, Vittorio Emanuele: il risorgimento in quel 1859 stava rapidamente cambiando pelle, da repubblicano e carbonaro diventava monarchico e savoiardo, non è certo un caso che i manifestini “viva V.E.R.D.I.” cominciassero ad esser distribuiti proprio a partire dalla prima del Ballo in maschera e che l’anno dopo Garibaldi consegnerà al Re Savoia l’Italia borbonica.

Perché, nonostante la censura, tutti sapevano benissimo cosa volesse esprimere l’Autore: oggi questa consapevolezza è invece del tutto scomparsa, occorre una mano registica che aiuti a ricordare o quantomeno a riempire di significato quello spettacolo che, altrimenti, rischia di presentarsi solo come una bella confezione infiocchettata che racchiude il nulla.

In realtà, in questo allestimento di Massimo Pizzi Gasparon Contarini, al di là del pur pregevole richiamo ai luminosi colori del barocco nei costumi, a Velázquez e a Caravaggio, a Rembrandt e a Friedrich, la scena rimane nulla più di ciò che è, un superbo fondale dipinto: manca del tutto un’idea registica che sia una. Poi leggo sul libretto di sala il contributo dello stesso Gasparon in cui afferma di aver scelto la versione “americana” perché più vicina a noi, anticipando in modo profetico tutte le questioni razziali che sarebbero esplose di lì a breve in America attraverso la guerra di secessione americana.

Bene, anzi ottimo, non sono d’accordo, ma non è certo questo il problema, va benissimo la versione americana e la relativa motivazione, ma il problema vero, ciò che è realmente grave è che quest’idea di Massimo Pizzi Gasparon Contarini non si è poi tradotta sulla scena, non dico in una compiuta drammaturgia, ma anche solo in un insignificante particolare, un gesto, un cenno, una maschera, un arredo, qualcosa che anche lontanamente, pur in un contesto barocco, potesse riportarsi a questo pensiero del regista. L’autentico peccato mortale di questo allestimento sta proprio qui, non basta la suggestione di un bel fondale, i riferimenti ai grandi artisti, le luci fascinose, i costumi e le bandiere giuste per l’epoca, occorre che l’idea, se c’è, diventi carne e sangue, gesto e sguardo, si faccia, in una parola, teatro: perché possa ancora, dopo quasi due secoli, ancora ammaliarci.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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quella-particolare-occasione-dun-ballo-in-mascheraUn ballo in maschera <br>di Giuseppe Verdi <br>Direttore, Pinchas Steinberg <br>Regia e Luci, Massimo Pizzi Gasparon Contarini <br>Scene e Costumi, Pierluigi Samaritani e Massimo Pizzi Gasparon Contarini <br>Coreografie, Gino Potente <br>Riccardo, Vincenzo Costanzo <br>Renato, Ernesto Petti <br>Amelia, Oksana Dyka <br>Ulrica, indovina, Elizabeth DeShong <br>Oscar, paggio, Cassandre Berthon <br>Silvano, marinaio, Maurizio Bove <br>Samuel, nemico del Conte, Romano Dal Zovo <br>Tom, nemico del Conte, Adriano Gramigni <br>Un Giudice / Un servo d’Amelia, Massimo Sirigu <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Maestro del Coro, Fabrizio Cassi <br>Produzione del Teatro Regio di Parma <br>Opera in italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata: 3 ore circa, con due intervalli <br>In scena dal 4 all’11 ottobre 2025 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 5 ottobre 2025

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