Comincia naturalmente da molto lontano, la storia andata in scena al mio bel San Carlo di Napoli, ben prima del suo debutto che avvenne proprio qui, di fronte a questi antichi dorati palchi, pur se sotto le mentite, improbabili spoglie di Buondelmonte, in quel 18 ottobre dell’anno di grazia 1834: in tutta evidenza, la storia di Maria Stuarda è stata, da sempre, delicatissimo oggetto sensibile, da trattare con i guanti e le forbici della censura. Non poteva non incapparci dunque pure Gaetano Donizetti, a quell’epoca – tra il lento declino privato di Rossini, la morte prematura di Bellini e Verdi ancora alle prese, infelici, con Oberto – il maggior compositore d’opera italiano del momento, oltre che Direttore dello stesso Teatro San Carlo, sullo scranno che era stato di Rossini.
E dunque, nella temperie romantica di quegli anni, Maria Stuarda era quasi una tappa obbligata, vista anche la predilezione, per l’Autore, di narrazioni riguardanti fragili donne immerse in un’atmosfera brumosa e opaca, alle prese con forze di gran lunga più potenti delle povere forze loro: la storia e la tragedia, dunque, pur se in modo tutto diverso da come, per esempio, comincerà a fare Verdi di lì a poco, cercando per tutta la vita, invece, il manzoniano equilibrio tra la Storia e le storie; poco interessa, al contrario, a Donizetti della Storia, d’Enrico e di Guglielmo, dei regni degli uomini e dei popoli, che rimangono molto sullo sfondo. Interessa, e molto, invece la donna che la storia ci ha consegnato vittima redenta dalla morte, insieme al suo contrasto con la cugina Elisabetta, sua carnefice: benché vissute più di quattro secoli fa, la loro storia ci appare, se non moderna nelle forme, certo contemporanea nella sua intima essenza, due donne di fronte al potere e all’amore.
Perlomeno così le visse l’Autore di questa tragedia, Friedrich Schiller, che scrisse, per l’appunto, Maria Stuarda nel 1800, in bilico tra lo Sturm und Drang e l’alba del Romanticismo. Marie Stuart est, ce me semble, de toutes les tragédies allemandes, la plus pathétique et la mieux conçue: il giudizio entusiastico di Madame de Staël segna, di fatto, un’epoca, profondamente influenzata dal geometrico disegno del poeta tedesco. Naturalmente non sappiamo se Gaetano Donizetti conoscesse il saggio da cui è tratto quel giudizio così ammirato, di sicuro tuttavia è del tutto legittimo sospettare che l’avesse condiviso almeno per sentito dire, visto che fu proprio lui stesso a decidersi per questo soggetto nel 1834, addirittura valendosi per la sua realizzazione dell’originale schilleriano e non d’una delle rielaborazioni che circolavano al tempo in Italia, come d’uso comune tra i musicisti.
Di sicuro la figura di Maria ha, fin dall’epoca dei contemporanei, affascinato poeti ed artisti: Inferiore a Macbeth, però più grande… non come lui felice, eppure assai di più… sarai padre di Re, ma tu non lo sarai. La profezia delle streghe a Banquo sembra adattarsi su misura a Maria Stuarda, inferiore alla cugina Elisabetta Tudor, ma più felice di lei, pur nella tragedia, perché madre di Re, mentre il grembo di Elisabetta sarà sterile. Nella trasfigurazione del Bardo in tanti vedono, sotto le tragiche sembianze di Macbeth proprio lei, la Regina Vergine, e sotto quelle del fido Banquo Maria Stuarda, madre di Giacomo che sarà, per l’appunto Re: una vicenda complessa, un dramma familiare che richiama le grandi tragedie dell’antichità, sul filo di morti accidentali e assassinii efferati, Re e Regine, Principi e pretendenti, guerre di religione e di successione, matrimoni combinati e strumentali. Non fu solo il Bardo, peraltro contemporaneo ai fatti, Schiller poi e ai nostro Donizetti, a rimanere, naturalmente, affascinati dalla storia di Maria, di lei e di questa storia di potere e morte hanno scritto commediografi come Alfieri e Zweig, musicisti come Monteverdi, Rossini e Britten, oltre ad aver dato ispirazione, in tempi più vicini ai nostri, a una sterminata quantità di film e telefilm; molto amò, Maria, il Romanticismo e i romantici, che cercavano nella storia i passaggi più oscuri e intricati, donne appassionate inevitabilmente facce della stessa medaglia, buio e luce, bontà e malvagità, Crimilde e Biancaneve, se volete, inscindibili componenti dell’eterno femminino che la mascolinità invece scindeva inevitabilmente, nell’impossibilità di accettare la complessità della donna e del suo alieno universo.
Partì, dunque, il Nostro, alla conquista di questa storia, fin dall’inizio bruciando le tappe: era del tutto inusuale che la scelta del soggetto di un’opera non fosse l’impresario o il librettista, tanto da far scrivere al principe di Torella, presidente della Compagnia d’industria e belle arti, in una lettera al principe di Ruffano, soprintendente de’ teatri e spettacoli al Ministero dell’interno del Regno di Napoli che, impegnato il Maestro Donizetti per iscrivere una musica pel Real Teatro di S. Carlo si riserbò la scelta del libro; e non riuscendo a convincere Felice Romani a scriverne il libretto, ne affidò la stesura a uno studente di legge diciassettenne originario della Calabria, Giuseppe Bardari. Di fatto, quel libretto, Bardari – che mai più si lanciò in impresa simile – lo scrisse, com’ebbe a dire l’impresario Lanari, sotto dettatura dello stesso musicista.
Si spiega così la mancanza, nei versi di quest’opera, dell’eleganza di un versificatore professionista, come Romani o come, più tardi, Salvatore Cammarano; e poi anche una certa insolita concisione del poemetto, in tutta evidenza piuttosto breve se raffrontato, per esempio con Anna Bolena, tanto affine a questa per materia e per epoca di composizione. In tal modo si realizza, per la prima volta, il principio drammaturgico d’una sintetica espressione della tragedia in musica che, in certo senso, anticipa ciò che Verdi imporrà al teatro musicale a partire dagli anni Quaranta, Naturalmente Donizetti arriva a questo risultato di molto sfrondando l’originale schilleriano, il primo atto manca del tutto, soprattutto scompaiono i dubbi e i rimorsi di Elisabetta generatori della tragedia, rimane al centro, risaltando ancor di più il triangolo amoroso tra le due donne e l’oggetto della loro disputa, Leicester, anche perché molte importanti figure maschili vennero condensato in quest’unico personaggio.
L’allestimento che il San Carlo mette in scena è una produzione del nostro Massimo, del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia e della Dutch National Opera: bisogna dar atto a Sophie de Lint, sovrintendente del Teatro di Amsterdam, di aver messo in cantiere l’intera trilogia Tudor di Gaetano Donizetti, partendo da Anna Bolena, passando per Maria Stuarda per arrivare a Roberto Devereux, con un progetto ambizioso e coraggioso. Perché non è certo così “normale” il belcanto da quelle parti, nella romantica ma freddolosa Amsterdam, a parte Rossini, non ha di sicuro avuto possibilità di esprimersi.
Costruisce, allora, la regista Jetske Mijnssen con l’aiuto della matita di Ben Baur un dispotico universo per molti aspetti simile a quel che avevamo già visto lo scorso anno con Anna Bolena, una scena caratterizzata da disarmata semplicità che produce, invece, e per contrasto, effetti di sbalorditiva sontuosità, oscura e scostante nella sua stupefatta natura: intorno alla descrizione di una sala dalle pareti antracite che termina, sul fondo, con spiccata prospettiva, su una grande porta centrale, si addensa un fondo che rimane inconoscibile e buio, luogo ottuso e anodino dei sussurri della corte, delle taciute preghiere degli amici di Maria, degli sguardi persi intorno alle perdute occasioni.
Ma se il mondo anancastico e fobico di Elisabetta e Maria, apparentemente chiuso alla luce e alla speranza, ci sembra in tutto e per tutto simile nello stile a quello d’Anna Bolena e d’Enrico già deciso a ripudiarla, del tutto diversa ci è apparsa, tuttavia, la narrazione e il tono di questa, la drammaturgia, come lo scorso anno, di Luc Joosten, ci è sembrata molto più rispettosa della musica e delle intenzioni dell’Autore, che mette da parte il conflitto di potere tra le due regine per dedicarsi maggiormente allo scavo psicologico delle due donne, innamorate, forse, dello stesso uomo: rimproveravamo, all’Anna Bolena della stessa regista, l’anno scorso, al di là delle ottime buone intenzioni, proprio quell’inutile e deleterio puntare al gioco della ricostruzione storica, nel continuo, ricercato scontro e sfida tra contrapposte esigenze, il bianco e il nero, il buio e la luce, l’amore e la forza, l’amicizia e l’ambizione, la vita e la morte.
L’affabulazione punta questa volta molto più sui simboli e le percezioni, che talvolta diventano sguardi allucinati e riuscite scene d’insieme, ben lontana, nonostante l’apparente riguardo ai costumi (di Klaus Bruns), alle ambientazioni, alla ricostruzione dello spinto manierismo inglese, che pure è notevole, da ogni possibile realismo o naturalismo: per la porta in fondo, da cui si sprigiona, di rado, l’accecante luce della storia, entrano ed escono i personaggi del dramma, certo, ma più spesso evocazioni e timori, presagi e ricordi, gli stessi pochi protagonisti sono presenti sulla scena talvolta anche quando non dovrebbero esserci, rispondendo a esigenze dell’animo loro o degli altri personaggi, anche contro ogni logica razionale, in un continuo affastellarsi di pensieri talvolta torbidi e maligni, talaltra morbidi e consolanti. Se all’inizio è Elisabetta a chiuder – metaforicamente e non – Maria fuori dalla stanza e dal Castello di Westminster, sarà successivamente Maria a tener fuori, anche dalla propria mente, Elisabetta, in un’alternanza che ben rende la perfetta simmetria, drammaturgica e musicale, tra le due protagoniste, con un primo atto tutto dedicato ad Elisabetta e che culmina con il drammatico colloqui tra le due regine e tra le le due donne e un secondo invece riservato al percorso verso la morte di Maria.
La raffinata drammaturgia che mostra tangibilmente come senta, Elisabetta, il passato suo e della madre Anna Bolena il più spesso come un vecchio rimorso, o un vizio assurdo, si rivede bambina giocare con la bambola, soprattutto rivive, vivido come un vero e proprio delirio allucinatorio la festa del matrimonio del re Enrico con Jane Seymour – coincidente con il patibolo della madre – che avevamo visto a conclusione di Anna Bolena. Vediamo l’invasione dei festanti in bianco – ma segnati dal sangue – all’inizio, la scena si ripeterà alla fine dell’atto, dopo l’invettiva Figlia impura di Bolena che segna il culmine della prima parte, in un recitativo declamato che risuona come uno schiaffo bruciante, decisivo punto di non ritorno che riaccende i mai sopiti sensi d’inferiorità e di colpa d’Elisabetta, fino a delirio di veder Maria salutata come regina dall’intera corte, culminando nella consegna dello Scettro e il Globo, segni dell’assoluta sovranità, alla rivale, mentre lei, la regnante, viene trascurata.
Del resto, già prima la stessa scenografia aveva sottolineato questo stesso concetto nello scoperto simbolismo usato per descrivere le due residenze regali: se la reggia di Westminster d’Elisabetta risulta alla fine oscura e nera come una cella, la dorata prigione di Fotheringhay si adorna di uno splendente arazzo con l’unicorno e il cervo sui prati, tra l’odorosetta e bella famiglia dei fior, in cui Maria ricorda se stessa e il giovanissimo marito Delfino di Francia alla Corte dei Valois. È invece tutto teso all’inevitabile conclusione del patibolo, il secondo atto, passando attraverso la firma della sentenza da parte di Elisabetta, la sua lettura alla condannata, e poi la confessione, uno dei momenti più tesi dell’opera e che fu certamente una delle parti contro cui si scagliò la furia della censura. Emergono fantasmi del passato, irrompono i conti in sospeso con un vissuto complesso e travagliato: non è di certo una santa, Maria, s’evoca il marito Arrigo (Enrico Stuart, Lord Darnley), il cantore Davide Rizzio, amori e passioni, trame e misteri, come la congiura Babington.
Ma è, questo doloroso rivivere il passato, condizione di profonda e autentica metanoia, giungendo finalmente all’accettazione, di sé e del proprio vissuto prima d’ogni altra cosa e poi del mondo e della storia, preparandosi alla morte. La cosiddetta Preghiera degli Scozzesi, celebrazione della nuova acquisita consapevolezza da parte di Maria e del suo popolo, viene resa splendidamente dalla regia in un momento di grande suggestione, lasciando l’intera scena a Maria, nella stanza, mentre il popolo, in saio nero, s’addensa nel buio ai lati della parte centrale del palcoscenico, accendendo anche, ad un certo punto, dei flebili ceri. Per la sua oscura passionalità, rievocata nella confessione, Maria è arrivata fino ad armare la mano dell’amante contro il marito, ora, nel momento supremo, quando infine sale sul patibolo, accetta la condanna per riparare quella colpa: la bellezza si congeda dal potere, resta sul trono, diversamente vittima, Elisabetta, che con grande intuizione la regia vuole presente almeno virtualmente, disumanamente sola.
Ottimi gli interpreti, a cominciare dalla guida della sempre puntuale Orchestra del San Carlo, il Maestro Riccardo Frizza, che sa trovare i tempi giusti, grazie alla manifesta competenza della partitura, che sempre riesce a tradurre in chiarezza del gesto e pulite sonorità: d’altra parte non potrebbe esser diversamente, vista l’autorevolezza che non manca di certo, in questo caso, al Direttore Musicale del festival Donizetti Opera di Bergamo, impegnato da sempre in una raffinata ricerca filologica delle migliori pagine del melodramma italico – belcantistiche e donizettiane in particolare – convinto com’è che non debba mai venir meno una salutare tensione al continuo rinnovamento, guardando soprattutto all’estero alla ricerca d’un troppo tempo perduto in una Italia, da sempre con lo sguardo rivolto ad un passato in fondo nemmen troppo glorioso. Non si può dargli torto, d’altra parte allestimenti come quello di stasera possono essere senz’altro emblematici di una ricerca fruttuosa di difficile equilibrio tra tradizione e innovazione. Direzione da promuovere, dunque, a parte qualche incomprensione con il Coro, diretto da Fabrizio Cassi, che trova spazio per la propria espressione artistica soprattutto nel secondo atto, contribuendo in gran parte all’intenso magnetismo che si viene a creare sulla scena, molto gradito, del resto, dal pubblico.
D’altronde gli spettatori hanno riservato alle due interpreti di stasera una vera e propria ovazione, quando sono apparse, da sole e insieme, al riaprirsi del sipario, con tanto di fiori lanciati dai palchi. Pretty Yende è una intensa e tenera Maria: la leggenda racconta che, nata in provincia, ben lontana dalle sacre patrie della musica e dello spettacolo, laggiù in Sudafrica, sia rimasta folgorata dal Duo des fleurs di Delibes ascoltato alla radio perché usato come soundtrack della pubblicità della British Airways: ha studiato poi canto (diplomata all’Accademia dei Giovani Artisti del Teatro alla Scala nel 2011), vinto concorsi (il Belvedere di Vienna nel 2010 e Operalia nel 2011) e vissuto una carriera da star internazionale: New York, Milano, Londra, Parigi, Vienna. E poi Napoli, dove il caso ha voluto stasera riproporle un grande ruolo insieme ad un mezzosoprano, assolvendo al presagio di quella accennata Lakmé e fornendo una prova ineccepibile, sia drammaturgicamente che vocalmente.
Accanto a lei, contro di lei, insieme a lei, Aigul Akhmetshina è una Elisabetta altrettanto eccezionale, impeccabile sia sotto il profilo vocale sia dal punto di vista scenico, dando prova di essere grande attrice oltre che splendida cantante, mettendo ben a fuoco il rigore, la razionalità e la repressione della femminilità d’Elisabetta che, gelidamente chiusa nella crisalide del potere non riesce tuttavia a nascondere qualche cedimento, un modo di incarnare il potere che si sforza di essere declinato tutto al maschile, cercando di negare, almeno in apparenza, almeno in pubblico, le debolezze attribuite dallo stereotipo al sesso suo, ma che finisce per essere solo una grottesca caricatura di ciò cui aspira. E poi, a completare il triangle amoureux, Francesco Demuro, nei panni di Roberto di Leicester, che va ben oltre il disegno di una figura tipica del sottobosco del potere che sfrutta l’avvenenza fisica per scavarsi la sua personale nicchia di privilegi, perché, oltre ad esser fornito d’una voce piena e dal timbro bello che sa elargire sempre con grande generosità, dimostrando emissione sicura e chiarezza della dizione – pur se talvolta la voce appare sotto sforzo evidente – mostra pure non comuni doti attoriali, grazie alle quali, complice l’accorta regia, appare a un certo punto perfino realmente soggiogato dal fascino di Maria, pur rimanendo perennemente sotto il controllo vigile d’Elisabetta.
Di buon livello anche il cast dei comprimari: all’ottima Anna Kennedy di Chiara Polese, decisamente dalla parte di Maria, fa da contraltare Sergio Vitale nei panni di Guglielmo Cecil, che non perde occasione per ricordare ad Elisabetta quanto sia conveniente e opportuna l’eliminazione della pericolosa rivale; è Carlo Lepore, tuttavia, dalla bella voce corposa e vellutata, di cui ben conosciamo valore e meriti, il migliore dei comprimari, che riesce a disegnare con gran maestria ed eleganza il cortigiano Talbot dalla natura obliqua e sfuggente, che scopriamo prete in incognito nella Gran Bretagna dell’integralismo anglicano e che tuttavia s’industria a ben servire fedelmente la Corona e la sua Regina.
Ben ci rappresenta, probabilmente, questo personaggio di sconcertante modernità – o forse eternità – perché in questo mondo fortemente, asperrimamente, esageratamente melodrammatico, dove i sentimenti straripano, le passioni trasbordano, la drammaticità esonda, le emozioni travalicano, il pathos abbonda, le situazioni si accendono, i colori abbagliano, i toni si sovraccaricano, in questo mondo dell’ambiguità e della paura dove i buoni son troppo buoni e i cattivi troppo cattivi, i tiranni spietatissimi e i leccapiedi vermi ignobili, è il solo, il buon vecchio Talbot, a conservare, in fondo, ben dissimulato sotto chili di multiformi a contraddittori travestimenti e costumi, una luce di non spenta umanità. Il che non è poco.