Per un po’ avevo temuto il peggio: ciò che si diceva del Ballo in maschera per la regia di Leo Muscato al Teatro San Carlo di Napoli in questi giorni, dopo essere stato messo in scena a Roma nel 2016, le stesse dichiarazioni del regista, non promettevano nulla di buono. Perché parlar di fiaba per un’opera verdiana mi sembrava francamente andar oltre la misura consentita, per il Maestro che aveva fatto del canto della Storia la sua poetica più autentica e poi, di tutti i suoi lavori, proprio questo, che, pur strana e originalissima commistione di tragedia e commedia, si basava su fatti storici anche se opportunamente romanzati. Mi lasciava perplesso, poi, leggendo le note di regia, la facile e fuorviante attribuzione alla categoria di fiaba solo in base al fatto che la materia dell’opera tratta di un “re, la sua amata, il suo migliore amico, la strega cattiva, i traditori buffi, il paggio un po’ matto” confermando le mie più serie perplessità.
Poi, a riprova di come le supposizioni e i rumors siano spesso fuorvianti, ieri sera ho visto l’opera a teatro e della supposta ambientazione favolistica non c’è assolutamente traccia se non nell’incipit, quel “c’era una volta un re” proiettato sul fondo che mi riporta, in verità, più a pensieri collodiani che verdiani; evidentemente ci dev’essere una maledizione che affligge da sempre quest’opera, una serie infinita di equivoci, rifacimenti, riambientazioni anche incredibili, fuorvianti e discutibili che perseguitano questa partitura fin dall’inizio, i guai con la censura, dal Ballo alla Vendetta in domino all’Amelia degli Adimari, finendo in tribunale per inadempienza contrattuale il compositore, querelato per danni il Teatro San Carlo che l’aveva commissionata, fino all’approdo in America dove Gustavo III di Svezia diventò, più borghesemente e più modestamente, Riccardo Conte di Warwick e Governatore del Massachusetts.
«La è una operaccia, mio caro, fatta senza coscienza, senza sapienza, senza altezza di concetti e di modo», scriveva ad Arrigo il fratello Camillo Boito, dopo aver assistito a una ripresa dell’opera nella stagione autunnale al teatro La Pergola di Firenze nel 1861. Verdi si trovava ormai in una posizione di preminenza nei teatri italiani ed europei e nell’inverno del 1861 si era recato in Russia, per soddisfare alla commissione di un’opera da parte del teatro imperiale di Pietroburgo, per quella che sarà La forza del destino, ma il giudizio bruciante rimarrà e peserà non poco, di qui in avanti, sulle spalle del Maestro che, uscito finalmente dagli anni di galera, avrebbe potuto tranquillo comporre senza fretta: il mondo intorno a lui stava però profondamente cambiando, la “musica alemanna” che veniva d’oltralpe infiammava i giovani, il Maestro cercò in quegli anni difficili nuove strade per la sua musica e la sua drammaturgia e Un ballo in maschera è, per l’appunto, frutto non acerbo di questo lavorìo interiore, del faticoso, continuo rinnovarsi.
Conservò, tuttavia, il Maestro, in quegli anni di ripensamento in cui pure lo spirito risorgimentale andava mutando, con il compirsi dell’Unità, la visione fortemente unitaria che sempre ha caratterizzato la sua musica, per cui, a partire da Rigoletto, ma in certa misura anche per le opere precedenti, ogni opera acquista una sua precisa fisionomia, che non permette, per esempio, come era frequentissimo in altri musicisti, lo scambio di pezzi musicali tra un’opera e l’altra. E così anche il Ballo in maschera ha un tema e un particolare colore dominante, l’amore, amore sconveniente e proibito, amore rapinoso e assoluto, che domina tutto l’atto centrale che si trasforma in un lungo duetto tra i protagonisti, tanto da far dire a Massimo Mila che quest’opera è il Tristan und Isolde italico. Ora, senza voler far paragoni in qualche modo impegnativi e forse ingenerosi, è fuor di dubbio che l’amore impegna i protagonisti fors’anche – in particolare il discorso vale per il re – in misura superiore al dovuto: ne esce un quadretto di personaggi – un re, un primo ministro, la di lui consorte – piuttosto vacui, impegnati a passar il proprio tempo in improbabili spelonche d’improvvisate indovine – caricature della ben più infernale Azucena – più che in affari di stato, con i cospiratori – che sembrano usciti da un’operetta viennese – che minacciano il tanto temuto regicidio.
Larve, che a Verdi in questo momento non interessano per nulla, perché tutti questi personaggi trasparenti ed incredibili servon solo da volano al vero protagonista dell’opera, l’amore, appunto, pervasivo, incondizionato, che si maschera e si smaschera in ogni atto, che alla fine balla, in attesa di risolversi in morte, il Todesmenuette con inusitata levità e grazia. Perché proprio l’eleganza è poi, accanto all’amore, il secondo tema portante, o, meglio, il mezzo attraverso il quale si veicola l’amore, una finezza che non faceva certamente parte del bagaglio di Verdi – e che forse non ritroveremo più, fino alle due opere del commiato – che ci aveva abituato alle volgarotte feste del Duca di Mantova o agli echi bandistici dei brindisi parigini a casa di Violetta, che dà al particolare colore musicale del Ballo in maschera la malinconica allegria – non spaventi l’ossimoro, quest’opera è di per sé un ossimoro – e la particolare dissonanza del desiderio – rendendo così l’eleganza il necessario corollario del tema portante dell’amore – in cui risiede, certamente, il fascino più vero e senza tempo di quest’opera.
E poi Oscar, questo personaggio così brioso e tragico – ma che, alla fine, tradirà involontariamente il re – diventa, lui sì, personaggio vivo e vitale, centrale in quest’opera, catalizzatore musicale del luttuoso e del fatuo, tanto importante nell’economia del dramma da far dire a Verdi che «Jacovacci è imbarazzato per trovare il Paggio. Certo che ora è tardi. D’altronde preferisco non dare l’opera, che lasciar rovinare una parte di tale importanza». Perché, lasciando del tutto da parte certe contemporanee interpretazioni che alludono ad un rapporto omosessuale tra il re e il suo paggio, fantasie del nulla che denotano scarsa conoscenza sia del dramma musicale sia della psicodinamica, Oscar è il vero volto dell’opera e l’autentica novità per Verdi, che riesce a disegnare un personaggio – no, questo proprio non gli riuscirà più – così lieve e triste, così brioso e ingenuo, tanto che parrebbe uscito dalla penna di Mozart, quasi fratello minore di Cherubino.
Detto ciò, diciamo subito che Muscato, a dispetto dell’annuncio problematico di cui s’è detto, ha preferito andar sul sicuro: appurato che trattasi dell’ambientazione che avrebbe dovuto esser quella scandinava originale, ma che, vivente Verdi, non s’è mai vista, ricostruisce fedelmente, nelle scene firmate da Federica Parolini una Svezia fatta di pesanti tappezzerie di damasco che assicurano, certo, il caldo all’interno dei gelidi e non vastissimi ambienti dei palazzi reali di Stoccolma, ma che, tuttavia, risultano un tantino oppressivi alla vista e al respiro. Lo scrupolo storico e alla geografico si estende anche ai costumi, dovuti alla matita di Silvia Aymonino, forse solo un tantino sopravanzati di qualche anno, à la mode dell’Impero, di un decennio posteriore, respirando già aria napoleonica; la fedeltà alla geografia si spinge fino a dotare i lacchè della sala da ballo, nella scena finale, della corona di candele, dimenticando tuttavia che sì, è uso certamente svedese, ma limitato al Luciadagen che celebra ogni anno la rinascita della luce attraverso Santa Lucia.
E fin qui, comunque, non si va oltre l’ordinaria amministrazione; la novità – o, se volete, il rilievo – di questo allestimento risiede soprattuto, invece, a mio parere, in due elementi diversi: il primo è costituito dall’uso sapiente delle luci (di Alessandro Varazzi) che sottolineano “espressivamente” come dice Muscato, la vicenda. E, in verità, la prima scena del primo atto, nella sala regia, è tutta giocata su luci che illuminano dal basso una scena per altri versi piuttosto oscura, disegnando ombre inquietanti sulla parete, preannuncio di morte o, anche, stilizzazione della forza costrittiva del potere rispetto a quella, liberatoria, dell’amore. Il secondo quadro, l’abituro dell’indovina, è reso dalle luci per ciò che è, fenomeno da baraccone, esca per i gonzi che si turbano per l’arrivo del re dell’abisso, mentre l’orrido campo che ospita il lungo duetto d’amore del secondo atto è concepito come spazio astratto in cui le luci cangianti giocano con la nebbia che avvolge e maschera gli amanti. Con il terzo atto si torna alle atmosfere dei palazzi del potere, della gelosia e dei complotti, mentre la grande scena del ballo si risolve, a sorpresa, dal punto di vista delle luci, in forte accento espressionista, bianco abbagliante e freddo che taglia e scolpisce i costumi bianchi e neri dei coristi accentuando la forte drammaticità del momento. In ogni caso, l’atmosfera è, per fortuna, ben lontana dalla fiaba preannunciata.
Spicca poi, com’è giusto che sia, per tutto il ragionamento fatto prima – ed è questo il secondo elemento di forza dell’allestimento – il personaggio di Oscar, a perfezione rivestito da Anna Maria Sarra che si rivela come la reale, autentica mattatrice della serata. Perfettamente in parte sia musicalmente che drammaturgicamente, riesce a esprimere con prorompente fisicità l’assoluta joie de vivre del personaggio, facendo tuttavia trasparire, come sospeso in un sapiente territorio a mezzo tra l’ingenua saggezza e la procace malinconia, un che di contenuta e intima disperazione: così è fin dal Volta la terrea, reso con grande spirito e vivacità, fino a trasformarsi in girandola vivacissima e contagiosa, a mezzo tra levità rococò e virtuosismo di gusto francese, per proseguire nel complesso quintetto di È scherzo od è follia, pagina in qualche modo così caratteristica di quest’opera, misto di forzata allegria, oscuri presagi, dolore spezzato, in cui la voce della brava interprete assume decisamente un ruolo dominante, per finire con il Saper vorreste in cui l’allegria è massima, al pari delle tensione per l’omicidio che noi sappiamo prossimo a compiersi, che si conclude addirittura con l’esecuzione della ruota, a conferma di una piena identificazione, anche gestuale e fisica, con il paggio Oscar.
Ma, più in generale, tutti gli interpreti sono ben al di sopra della sufficienza, a volte nell’orbita dell’eccellenza: convince, Celso Albelo, pur se la complessità vocale del personaggio a volte necessiterebbe d’altra vocalità, con una interpretazione che ha i suoi netti punti di forza nella grande eleganza – come d’obbligo in questo caso –, ottimo fraseggio, l’acuto bello e pieno, come dimostra in Di’ tu se fedele e nel lungo duetto d’amore, in cui la voce gareggia, senza perdere la sfida con quella, forte e decisa come sempre, di Susanna Branchini, di cui conosciamo il forte temperamento e la vincente presenza scenica e che stavolta riesce a vincere la sfida con se stessa, addolcendo il potente strumento che ha a disposizione in favore di un’interpretazione più appassionata e meno imperativa; molto applaudite, per l’uno e per l’altra, rispettivamente Ma se m’è forza perderti e Morrò ma prima in grazia.
Luca Salsi è un Renato – o Anckarstöm che dir si voglia – perfetto nella voce, piena, brunita, nobile e ampia, che trova spazio e modo di varsi apprezzare nella famosa Eri tu, quasi un simbolo di quest’opera e cavallo di battaglia di tanti baritoni verdiani, che risolve con perfetta articolazione dinamica e con grande attenzione allo spettro molto ampio delle emozioni, il pubblico glielo riconosce e lo segnala con molti applausi; così pure viene apprezzata l’Ulrica della giovane Agostina Smimmero dalla voce che a tratti impressiona per profondità, pur conservando grande musicalità, centrando quindi in pieno un personaggio che di solfureo ha ben poco ma che richiede, invece, di ricorrere all’intera estensione della voce del mezzosoprano, senza spezzarsi in asprezze non volute.
Buoni pure tutti i comprimari, tra cui si segnala, per volume di voce ed espressività, quella di Laurence Meikle un Sam o Conte Horn in cui all’importanza della voce si unisce quella scenica. Anche il Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, ha la sua parte, in quest’opera, e non certamente piccola: in questo caso possiamo senz’altro parlare di una promozione a pieni voti, sia nell’esecuzione del luminoso Posa in pace, reso con superba grazie e affetto, in contrappunto poi con il ritmico pulsare dei congiurati, sia nel pomposo ed ufficiale O figlio della patria, in cui è facile intravvedere una sorta di marcia reale, sia, ancora, nella doppia partita del terzo atto, la sfrenata allegria ritmica del Fervono amori e danze contrapposta al doloroso Cor sì grande diafano ed etereo che si gonfia, poi, potente e terrificante come un Dies Iræ. L’Orchestra, infine, del Teatro San Carlo, diretta questa volta dalla felice ed esperta mano di Donato Renzetti sa accompagnarci con arte e sapienza nella comprensione della musica di quest’opera per certi versi così sorprendente, per i suoi colori tenui e trasparenti, in qualche modo lontani dalla tradizione verdiana, elegante, quasi pudica, nel suo essere, nel suo apparire.