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L’Aida minimalista di Peter Stein

[rating=4] Un’Aida moderna eppur senza tempo, quella di Peter Stein, in scena alla Scala dal 15 febbraio al 15 marzo. L’atmosfera è quella delle opere più rinomate, nel più celebre d’opera italiano, da più di un secolo occasione per registi e direttori d’orchestra per cimentarsi col genio di Verdi.

E’ appunto al maestro che guarda la messa in scena di questa Aida in cui il regista Peter Stein si dichiara mero esecutore delle volontà verdiane.

Nell’epoca degli i-phone come status symbol, con il loro stile pulito ed essenziale (anche gli ospiti più classicamente vestiti per l’occasione non rinunciano ad un selfie sotto la locandina all’ingresso da condividere sui social) sembra più che mai in linea coi tempi la scelta minimalista a livello visivo, di cui si è molto parlato.

Lo scenografo Ferdinand Wögerbauer agisce agli antipodi rispetto l’opulenza e le imponenze architettoniche precedenti, nel passato tentativo di ricostruire la Menfi dell’Antico Egitto. Peter Stein contrappone a tutto ciò l’assenza, lo spazio vuoto, veicolo all’imponenza dell’immaginazione. L’effetto non potrebbe essere più ossimorico: il passaggio dall’oro in purpureo velluto della sala, all’apertura di sipario sciocca come il flash dei paparazzi al buio.

Aida_ph Teatro alla Scala

Un tappeto danza bianco, un “buco” prospettico nel fondo .. ed è tutto. A coloro che si domandano preoccupati se la crisi abbia colpito anche la Scala, rispondiamo che in realtà tutto ciò è frutto di una precisa scelta, non solo formale ma contenutistica. Proprio questa prima scena, preludio alle successive, rivela, anche solo dai movimenti e la posizione degli attori, perché il regista voglia limitarsi ad evocare il luogo, senza rappresentarlo. Perché il cuore dell’opera sono Aida, Radames, Amneris, disposti in proscenio in linea perfetta, a rivelarci l’intreccio amoroso, cantando uno sull’altro le loro emozioni. Tre direzioni, tre viaggi nell’abisso delle gamme emotive, da cui emergono il tema dell’amore contrastato, della guerra, della gelosia. Questioni del cuore senza tempo, che dunque non necessitano di alcun setting o contesto.

Se la musica è il linguaggio dei sensi, intuitivo, dritto alle emozioni, va da sé che il depotenziamento scenografico lasci spazio a maggior dettaglio musicale; che per lo spettatore si traduce in più attenzione da dedicare all’ascolto. E di questo ringraziamo Zubin Mehta, che, seguendo Stein, esegue le dinamiche così come le scrisse Verdi, esplorando cambi, differenze, ma con una predominanza, al contrario di quanto siamo stati abituati, per il piano e talvolta il pianissimo.

Il proficuo connubio Stein-Metha mostra momenti altissimi: in particolare la scena al tempio, i soliloqui della Lewis (Aida) e della Rachvelishvili (Amneris) e certamente il finale, dove si percepisce pienamente come il lavoro dei due sia esaltato dalla disposizione scenica e l’assetto luci (che in una scenografia così ridotta ai minimi termini devono essere ancora più precise nel connotare la scena).

Peccato per il coro, che fa calare l’emozione. Ahimé qualche colonnato in più avrebbe magari potuto nascondere i passi impacciati dei coristi, nel timore di calpestare lo strascico del vicino (forse per i sacerdoti qualche cm in meno ai costumi avrebbe facilitato le cose) o la “verve” mostrata nelle scene di trionfo e di inneggio alla guerra, da molti (purtroppo, la maggioranza) “interpretate” con l’entusiasmo e la mimica di un comò. Sono i dettagli a fare la differenza; purtroppo nelle scene corali si è avvertito qualche problema, mentre ottimo il terzetto dei protagonisti ed in particolare l’affiatamento scenico tra Aida e il padre Amonasro (ben interpretato da Ambrogio Maestri). Poco stimata dal pubblico in sala, che ha esternato a suon di “Bu!” (il che spiace comunque), l’interpretazione di Salminen (il Sacerdote); criticata purtroppo anche Aida, un po’ troppo statica in alcune scene. Tripudio senza esitazioni invece per Anita Rachvelishvili, vera protagonista che sembra aver destituito l’eroina di cui l’opera porta il nome. Anche grazie all’ultima, meravigliosa scena del suo suicidio, invenzione di Stein che passa come naturale, vista l’escalation emotiva della gelosa, colpevole, distrutta Amneris. Un momento di magia.

Un’Aida, insomma, interessante e non banale: una versione che si farà ricordare, leggera e chiara, umana, meno da vedere e più da ascoltare.

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