[rating=2] Le vicende che preludiano il debutto di La Favorite si intersecano abbondantemente con la storia musicale in terra francese. Dalla fine degli anni trenta dell’Ottocento, fino alla metà dei quaranta, Donizetti imperversa sulla scena europea dopo la morte di Bellini, il ritiro di Rossini e appena prima dell’arrivo di Verdi. Ben nove titoli, assai rilevanti nel catalogo dell’autore bergamasco, vengono presentati a Parigi, inducendo colleghi illustri a denunciare un’invasione straniera nell’ambito artistico.
Nascono capolavori, intrecciati a partiture solo abbozzate e poi riutilizzate: è il caso di La Favorite che viene concepita in un periodo in cui agiscono mostri sacri quali Meyerbeer, Halévy e Auber. L’incompiuta Adelaide, iniziata negli ultimi anni del periodo napoletano, offre gran parte della sua musica all’Ange de Nisida che tuttavia non è rappresentato perché il teatro commissionante chiude, a causa di un dissesto finanziario. Non resta che sperare nell’Opéra, massima sala della capitale, che è ben lieta di ospitare una nuova creatura donizettiana. Ovviamente è necessario un lavoro di sistemazione di musica e libretto per appagare le esigenze più raffinate del pubblico. Con il coinvolgimento di Eugène Scribe si raggiunge la struttura in quattro atti, mentre Donizetti interviene sull’orchestrazione, abbondantemente ampliata, e sull’aggiunta del canonico balletto.
Le numerose modifiche della vicenda definiscono l’opera che viene battezzata, trionfalmente, la sera del 2 dicembre 1840 con l’apporto di tre artisti del firmamento vocale d’allora: Rosine Stoltz, Paul Barroilhet e Gilbert Duprez. Il successo ottenuto, frutto degli smussamenti ‘francesizzanti’, induce ben presto a portare in Italia l’opera che inizialmente, causa censura, viene proposta come Leonora di Guzman, quindi con il titolo definitivo La favorita. Per tutto l’Ottocento il lavoro percorre la penisola, con numerosissime rappresentazioni. Nel secolo successivo, con il mutamento dei gusti del pubblico, le riprese diminuiscono, almeno fino al secondo dopoguerra quando, grazie alla Donizetti Reinassance, si acuisce un nuovo forte interesse per i titoli caduti nell’oblio.
L’allestimento del Teatro La Fenice, primo in lingua francese a Venezia, giunge a quasi trent’anni dall’ultima Favorita, proposta nel 1988/1989. La regista Rosetta Cucchi spoglia la trama dalle implicazioni politico religiose per rileggere tutta la vicenda alla luce dell’atavico conflitto tra genere femminile e maschile, con evidenti richiami alle angherie muliebri subite nei secoli. I caratteri dei personaggi sono ben marcati ma risentono di questa lettura che evita, per scelta, gli snodi focali del dramma.
Le scene di Massimo Checchetto assecondano l’impronta registica ricreando un ambiente asettico in cui si conservano tracce remote di elementi naturali ormai distrutti dalle devastazioni umane. Si intravvedono a fatica, qui e là, alcuni rimandi necessari a tenere una minima traccia dello svolgimento di base: pochi gesti cercano di dare qualche strumento ad un pubblico spaesato dall’ambientazione decontestualizzante nella quale trionfa l’uso di plastiche e materiali similari. Claudia Pernigotti cura i costumi, Fabio Barettin il disegno luci, Sergio Metalli la predisposizione delle proiezioni, preponderanti in molti tratti dell’opera, e Luisa Baldinetti la coreografia essenziale e d’impatto, attinente se filtrata attraverso le intenzioni rappresentative della Cucchi.
Per quanto concerne l’esecuzione, l’impronta data da Donato Renzetti è antitetica al linguaggio donizettiano. Il concertatore italiano sembra disinteressato alle levità della partitura, con grave danno alla resa complessiva. Alla pesantezza generale, con dinamiche poco curate, si abbina la scarsa attenzione per i solisti e per la cura dell’impasto orchestrale. Riescono credibili solo pochi momenti incapaci, da soli, di riscattare l’esito di un grand opéra. L’orchestra, nel tentativo di assecondare la propria guida, perde sovente lo smalto riscontrato in alcune recenti recite mentre il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti, risalta, come di consueto, per unità e precisione.
Gli artisti radunati per dar corpo a testo e musica non hanno saputo cogliere pienamente le peculiarità della scrittura donizettiana. Gli sforzi di Veronica Simeoni sono indirizzati alla definizione scenica, ben tornita ed emozionale, dei tormenti di Léonor de Guzman. I risvolti canori destano però qualche perplessità: tralasciando l’intonazione errabonda, è la brillantezza del timbro mezzosopranile ad apparire intaccata nelle zone grave e acuta. Il registro centrale, al contrario, conserva una certa rotondità necessaria a definire il melos francese. John Osborn esegue tutto con un certo abuso di mezzevoci e minor spavalderia, rispetto al consueto, nell’ascesa del pentagramma. Si percepisce qualche tensione, tanto con l’indirizzo direttoriale, quanto con le scelte registiche. Nonostante alcune asperità del timbro, gli va ascritta la pertinenza del repertorio ai mezzi vocali duttili e capaci di sfumature, sovente trascurate.
Vito Priante si accosta al ruolo di Alphonse XI inizialmente con circospezione. Man mano il baritono palesa maggiore spavalderia, benché risultino assenti, dalla sua interpretazione, portamento e accento consoni al nobile regnante. Lo strumento, allenato negli anni con il repertorio barocco e classico, non teme il belcanto e i frequenti abbellimenti di cui la partitura è infarcita. Appare, invece, meno efficace al cospetto dei numerosi passaggi drammaturgicamente più enfatici. I cospicui mezzi di Simon Lim, Balthazar, tradiscono un abbozzo solo superficiale del religioso la cui ieraticità scende a patti con un’emissione troppo spesso gutturale. La fragile Ines di Pauline Rouillard interviene con garbo, pur palesando qualche asprezza. Positiva la prova di Ivan Ayon Rivas il quale, nei panni di Don Gaspar, mette in risalto uno strumento musicale e assai promettente. A completare il cast vi è Giovanni Deriu, Un signore.
Pubblico piuttosto pacato durante la recita ma caloroso al termine.