Home Lirica La Dama di picche, tormento d’una magnifica ossessione russa

La Dama di picche, tormento d’una magnifica ossessione russa

Al Teatro Petruzzelli di Bari tradizionale appuntamento con l'opera russa: in scena "La Dama di picche" di Pëtr Il’ič Tchaikovsky nel suggestivo allestimento dell'Hessisches Staatstheaters di Wiesbaden

Il consueto annuale appuntamento che la Fondazione Petruzzelli riserva all’opera russa viene mantenuto questa volta con la messa in scena della Dama di picche, capolavoro di Tchaikovsky: da sempre la città di Bari e il suo maggior teatro conservano profondi legami con il mondo slavo e russo in particolare, importante retaggio storico che fonda le sue basi sulla comune devozione verso San Nicola. Naturalmente non sfugge a nessuno l’importanza di mettere in scena un capolavoro russo oggi, pur non dimenticando l’annullamento, nel marzo scorso, del concerto dell’Orchestra del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo diretta dal Maestro Valery Gergiev: la guerra Ucraina ha inevitabilmente cambiato la nostra percezione e la nostra sensibilità, inutile negare il maggiore e diverso interesse che proviamo oggi per quest’opera, rispetto magari a qualche tempo fa. L’insondabile assurdo della guerra ha bussato ancora una volta alla coscienza di chi, come noi, credeva ormai di esserne immune; l’arte, come sempre, può insegnare a capire la vita, non sempre, tuttavia, a viverla, soprattutto quando, come in questi casi, ci sembra di esser prigionieri di un ferreo e immutabile destino, proprio come Herman e Liza, protagonisti di quest’opera.

Dopo l’improvviso, catartico, liberatorio Onegin e dopo Mazeppa, opera in mezzo al guado, per tanti versi sperimentale, Tchaikovsky era arrivato a cinquant’anni, il suo successo professionale era ormai pieno sia in patria che all’estero, poteva tranquillamente permettersi di scegliere come voleva, e così la proposta di metter in musica Piovaya Dama, da quel racconto di Puškin così sospeso tra cielo e terra e tuttavia così duro e forte, lo aveva lasciato incerto, se non indifferente. L’idea di mettere in musica la storia di quel giocatore, pubblicata nel 1834, era venuta niente meno che al direttore dei Teatri Imperiali in persona, che aveva incaricato Modest Tchaikovsky di tradurre in libretto la vicenda e Nikolaij Klenovski di comporre la musica di quel che avrebbe dovuto essere grand opéra alla francese, fastosa e ridondante. Tchaikovsky si lasciò convincere, alla fine, solo due anni dopo la rinuncia di Klenovski: probabilmente fu la freddezza incontrata in Russia dalla Bella addormentata ad esser decisiva.

Sta di fatto che il balletto andò in scena al Mariinskij di San Pietroburgo il 15 gennaio 1890: presente alla prova generale, l’imperatore si complimentò con un tiepidissimo e stringato «Molto grazioso!», che fa il pari con le «Troppe note!» con cui un altro imperatore giudicò la musica di Mozart. Offeso – «Sua Maestà mi ha trattato molto sbrigativamente. Dio sia con lui.» – il compositore lasciò subito dopo la Russia portandosi appresso, anche se non ancora del tutto convinto, il libretto del fratello. Fu a Firenze che si persuase, gradualmente, del tutto, lanciandosi subito dopo nell’impresa di scriverne la partitura con foga e onda emotiva impressionanti, obbedendo a quella che lui chiamava “semplicità estrema”, primo ingrediente necessario per comporre un’opera, che “si deve scrivere (esattamente come tutto il resto) così come viene”.

Iniziò così a comporre il 31 gennaio, quindici giorni dopo lo spiacevole episodio del Mariinskij, rivoltando tuttavia la storia di Puškin come un calzino: se il protagonista del racconto è uno spiantato ufficiale calcolatore che strumentalizza l’infatuazione di Liza per entrare nella casa della Contessa per carpirne i segreti, Tchaikovsky ne fa un innamorato senza speranza che soffre senza alcuna possibilità anche solo di parlare alla ragazza, di cui non conosce neppure il nome; Liza non è più una semplice dama di compagnia, graziosa ma praticamente trasparente nel gran mondo degli accidiosi nobili russi, diventa la nipote della Contessa, nobile anch’essa e appena fidanzata col Principe Eleckij: la vincita al gioco diventa, almeno all’inizio, motivo di rivalsa sociale, di possibilità di cambiare la propria vita accanto alla donna amata: di un anektod satirico e spietatamente pungente, Tchaikovsky ne fa un dramma infiammato d’amore e morte.

Ne deriva, com’è ovvio, anche una diversa sorte dei protagonisti, alla fine, se Puškin concede ai due una poco onorevole ma salvifica via di fuga – si tratta in fondo solo di uno scherzo – chiudendo lui per un po’ in manicomio e lei in un bel matrimonio borghese di facciata, solo la morte diventa unico epilogo, invece, per il dramma del musicista, anzi, la morte e la fatalità del destino di morte è il vero tema dell’opera, presente e percepibile fin dall’inizio, intossica gli sguardi, gela i comportamenti, attutisce ogni altra emozione, perfino l’amore risulta, poi, alla fine, sottotono, l’intensità emotiva ti accorgi che è tutta nella forza sconvolgente della musica, quasi del tutto assente, invece, nella dinamica profonda dei personaggi: essi cantano l’amore, se ne riempiono cuore e polmoni, ma non ne vivono fino in fondo la “verità”.

Crea, inoltre, l’Autore, una complessa architettura musicale fatti di rimandi e reminiscenze, citazioni e allusioni, tutto il mondo musicale europeo del secolo dei lumi è in qualche modo evocato e fatto rivivere, trasportando la vicenda nel pieno regno della Grande Caterina, il mondo di Mozart, certo, ma anche di tanti musicisti russi del Settecento: non è semplice contorno elegante, il Rococò diventa strumento linguistico universale grazie al quale esprimere e incarnare passioni forti e condivise. La convinzione era tale, nel musicista, che il 14 marzo, in solo quarantaquattro giorni, terminò la prima stesura, venti giorni furono necessari per la versione completa per pianoforte e circa tre mesi, in tempo per il ritorno in patria, per dare veste strumentale all’opera intera.

Un record, ma la verità è che il compositore vide nell’opera, e aveva ragione, da un lato un modo per riaffermare la propria appartenenza alla cultura russa più profonda, dall’altro, tuttavia, anche un’occasione per definitivamente certificare il suo internazionalismo stilistico, dualismo felicemente risolto che accomuna Puškin e Tchaikovsky, in aperta distinzione, se non conflitto, con la scuola del Gruppo dei Cinque: La Dama di picche è l’opera in cui più d’ogni altra si rivela l’ambizione di tracciare una sorta di stilizzato autoritratto, dolente e tragico, in cui ognuno – similmente a Leonardo nella Gioconda – potesse intravedere le fattezze dell’Autore, i suoi tormenti, le sue irrisolte contraddizioni, il dolore di un’anima prigioniera. Come già Oneghin, così caratterizzato di riferimenti biografici, in maggiore e più sottile misura Herman è figura di Pëtr Il’ič, suoi sono i turbamenti, le sospese antinomie, le oblique e innominate aspirazioni, le scelte ineludibili che lo porteranno al suicidio. 

Nella visione registica di Uwe Eric Laufenberg – che cura questo allestimento dell’Hessisches Staatstheaters presentato a Wiesbaden nello scorso febbraio – immagini, temi, atmosfere proprie di Tchaikovsky si alternano ad argomenti, contenuti, concetti che trovano invece il loro riferimento più vero nella novella di Puškin, perfino nelle conclusioni. Rimane sicuramente l’impostazione tchaikovskyana di utilizzare come strumento linguistico un ben preciso stile in cui le passioni possano trovar più facilmente carne e sangue: il Secolo Breve sostituisce allora il Secolo dei Lumi, le linee spezzate dell’Art-Deco i riccioli del Rococò, la resa visiva è sicuramente intensa e profonda, grazie alle geometrie oscuramente glamour di quello stigma dalle forme semplici e pulite e dalle rigorose, stilizzate suggestioni: moduli razionali elementari – circonferenze, rettangoli, quadrati – simulano finestre, lucernari, rosoni attraverso i quali una luce lattea si proietta  – senza illuminare – all’interno dei ampi ambienti ideati dall’estro dello scenografo Rolf Glittenberg, linee e luci spezzate che, riverberando sui personaggi, ne sottolineano tormenti e incertezze

Perché poi non si sforzano, quelle scene e quei vasti spazi, di rappresentare il casinò, la camera da letto, il giardino, cercano invece di cogliere le contraddizioni, le ossessioni, le ambiguità dei personaggi, nel tentativo di dipanare la matassa illusoria creata dall’Autore, le sue false piste, il gioco continuo degli specchi, i reiterati rinvii a qualcosa che è altro e che viene creato apposta per sviare l’attenzione dall’unica potente magnifica ossessione che dal principio alla fine domina la partitura: debitori alla sensibilità di Tchaikovsky, dunque, misteri, inquietudini, premonizioni che si addensano, quasi prendendo corpo, nel buio di quelle scene spaziose e tuttavia asfittiche, immagini di un destino incombente e ineluttabile che, alla fine, stringerà in una morsa i protagonisti. 

Così anche gli abiti, disegnati da Marianne Glittenberg, eleganti, sontuosi, ovvero, a seconda, esageratamente kitsch nella loro traboccante volgarità, ispirati alla moda in voga nella prima metà del secolo scorso, contribuiscono a render quasi tangibile lo straniamento tra apparenza e sostanza, segni e simboli dell’urtante e smagata ipocrisia di un certo mondo che giustifica la fame d’aria che inevitabilmente ti prende dopo un po’: è qui, in questa descrizione desolata e satirica, cinica e senza speranza, che molto c’è, allora, di Puškin e del suo apologo originale, la narrazione non esaltante dell’eterno bunga-bunga di trivialità ed eccessi descrive sostanzialmente una società in rovinoso e irrimediabile declino morale, giunto forse al più definitivo stadio di dissolutezza. L’espediente dell’insistita nudità – che di per sé non è necessariamente volgare – diventa, grazie a un sapiente gioco di allusioni, sguardi e gesti trattenuti, grottesca allegoria di un potere che, grazie al danaro tanto bramato dal giovane Hermann, abusa dei corpi, li mercifica, uccide il desiderio, per paura di consumarlo, di rischiare di investirlo senza ottenere nulla, fino all’apoteosi della comparsa della zarina nuda, coperta solo d’una pelliccia bianca, vera icona del potere sfrenato e senza limiti: diventa, l’apparizione della zarina, salutata da inni gioiosi che suonano incongrui ed esemplarmente beffardi, epifanica incarnazione del sempreverde circuito sesso-denaro-potere che tante volte abbiamo conosciuto dalle cronache. 

Ma, se questo è il contorno, il contesto, le due donne protagoniste, invece, Liza e la Contessa, appaiono per contrasto, fin da subito fantasmi evanescenti che promettono entrambe, ognuna in diverso modo e per divergente strada, la possibilità di un riscatto, ma, pure, troppo definitamente legate ad un mondo alieno e ad un altrove che non prevede e non ammette intrusioni, l’una, la Dama di picche, legata ad un irripetibile e fantasioso passato, l’altra, Liza, ad una fantasmatica e infantile alienazione del desiderio che si consuma al di là e al di sopra d’ogni realtà possibile. Elena Bezgodkova canta Tchaikovsky fin da quando studiava a Mosca e negli ultimi anni, in particolare, il ruolo di Liza è diventato uno dei suoi cavalli di battaglia: la sua interpretazione si segnala per la trattenuta passione, commovente per la fragile semplicità che sottende, per mutarsi poi in travolgente passione disperata quando comprenderà i disegni che il destino le impone, accettando la dolce morte per assideramento avvoltolandosi letteralmente nella neve sulle sponde del fiume. 

Romina Boscolo disegna un singolare e indimenticabile ritratto della Contessa, la cui sfolgorante effigie come Venere di Mosca illumina di luce propria l’oscurità densa e altrimenti impenetrabile della sua camera da letto: il timbro vellutato e voluttuoso ti arriva fin nel profondo, e succede raramente per questo ruolo, solitamente affidato a cantanti che si avviano alla pensione, il suo Sprechgesang è veramente espressivo e da brividi. Herman è al centro, tra le due donne, eternamente in bilico nella sua condizione – tanto simile a quella dell’Autore – dell’acuito desiderio continuamente frustrato, della sensibilità costretta alla perpetua mistificazione e al nascondimento, della povertà – o della diversità – escludente e biasimevole che lo porta all’emarginazione, che gli fa intravvedere, alla fine, nel mettersi in gioco, nell’azzardare la propria vita – unico bene posseduto – la propria possibilità di riscatto: nega, la regia di Laufenberg, la morte in scena al protagonista, in omaggio all’originale puškiniano, condannandolo ad un alienato avvenire. 

Aaron Cawley sa diventare un Hermann invasato ed esaltato dalla voce potente e proiettante, ciò che ci si aspetta, in fondo, da questo personaggio, che il tenore irlandese sa rendere al meglio, sia sotto il profilo vocale che drammaturgico: ruolo decisamente ostico, da Heldentenor sempre in scena, reso ancor più complesso dal destino di uomo tormentato e senza freni, che vede – e lo vedono tutti – il suo destino già scritto. Spesso l’interpretazione di Hermann ne fa un innamorato convinto traviato dal demone del gioco, oppure, al contrario, un freddo calcolatore che non esita a sacrificare l’amore di Liza per il danaro: mantenere l’equilibrio tra questi due estremi dà esattamente la caratura giusta al personaggio e Cawley c’è riuscito perfettamente, onore al merito. 

La voce calda, ricca di dorate sfumature di Silvia Hauer è ciò che caratterizza una Polina affettuosa e malinconica amica di Liza, in una delle scene più belle dell’intero allestimento, il canto nostalgico di Podrugi milie sotto una gigantesca luna d’aprile, mentre il baritono tedesco Thomas de Vries sa ben vestire i panni sicuri e tranquilli del Conte Tomskij. Il Principe Eleckij, di cui Tchaikovsky fa una specie di Ottavio nel Don Giovanni – e quanto ci sarebbe da dire sull’analogia tra i due capolavori – trova corpo e voce negli accorati accenti di Benjamin Russell

Sotto la guida, infine, di Michael Güttler, direttore principale dell’Opera Nazionale Finlandese dall’agosto 2013, l’Orchestra del Petruzzelli compie realistiche meraviglie e così il Coro, diretto da Fabrizio Cassi, come al solito perfetto anche in una lingua ostica come il russo e alle prese con gli spericolati versi di Modest Tchaikovsky. Il tragico estenuato lirismo della partitura – spirale del destino che si stringe sempre più attorno ai protagonisti, vere vittime sacrificali – viene reso con potente respiro, assorto e mai enfatico. Non canta il sentimento, la musica di Tchaikovsky, ma la sua perdita, che diventa insanabile rimpianto, inconsolabile nostalgia e quando sfiora il tema della morte ha il dono di possedere una verosimiglianza ben lontana da ogni tentazione di falsa retorica. Riuscire a rendere al meglio tutto questo è ardua impresa di ogni orchestra e di ogni direttore, credo che questa volta possiamo dire che ci son riusciti egregiamente: perché poi, alla fine, ciò che noi percepiamo là in fondo, sulla nostra poltrona di velluto, è sempre il risultato di una inadeguatezza, un disallineamento, uno sfasamento tra ciò che l’autore aveva nell’animo e ciò che poi ha scritto, e qui, in fondovive la différence –  si cela il grande mistero e il grande fascino dell’irripetibilità e della dissimulazione dell’arte, ignota perfino a se stessa.

PANORAMICA RECENSIONE
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la-dama-di-picche-tormento-duna-magnifica-ossessione-russaLa Dama di picche <br>di Pëtr Il’ič Tchaikovsky <br> <br>Direttore, Michael Güttler <br>Regia, Uwe Eric Laufenberg ripresa da Silvia Gatto <br>Scene, Rolf Glittenberg <br>Costumi, Marianne Glittenberg <br>Disegno luci, Andreas Frank <br>Video, Gérard Naziri <br>Coreografie, Myriam Lifka <br> <br>Hermann, Aaron Cawley <br>Il Conte Tomskij, Thomas de Vries <br>Il Principe Eleckij / Plutus, Benjamin Russell <br>Liza / Chloë, Elena Bezgodkova <br>Polina / Daphnis, Silvia Hauer <br>La Contessa, Romina Boscolo <br>Čekalinskij, Erik Biegel <br>Surin, Marek Reichert <br>Čaplickij, Julian Habermann <br>Narumov, Mikhail Biryukov <br>Maša, Alexandra Koch <br>Il Cerimoniere, Raffaele Pastore <br> <br>Orchestra e Coro del Teatro Petrizzelli <br>Maestro del coro, Fabrizio Cassi <br> <br>Produzione Hessisches Staatstheaters Wiesbaden <br>In scena dal 15 al 20 ottobre 2022 <br>Opera in russo con sovratitoli in italiano <br>Durata: 3 ore circa, con intervallo <br>Bari, Teatro Petruzzelli, martedì 18 ottobre 2022

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