“Abbietta zingara, fosca vegliarda! Cingeva i simboli di maliarda! E sul fanciullo, con viso arcigno, l’occhio affiggeva torvo, sanguigno!” canta Ferrando, il basso Carlo Cigni, le gesta della zingara che aveva bruciato Garzia, il bambino rapito per vendicare la madre giustiziata dal vecchio Conte di Luna. I soldati (poliziotti) in una scena, a guisa di cimitero ricorda quello militare di Berlino, con la pira ardente, la portano legata e ne chiedono la morte.
Due i figli del vecchio conte l’attuale Conte di Luna e Manrico, il Trovatore appunto. Leonora, voce potente, il soprano Tatiana Serjan, al centro scena attende il ritorno del suo amato Manrico, al solo ascolto della sua voce e ingannata dall’oscurità si getta tra le braccia del Conte, l’abile baritono Simone Piazzola. Da qui la gelosia del primo crea la vicenda dell’opera.
In un continuo alzarsi e abbassarsi di tombe, ora lapidi, ora altari, ora merli di castello con la musica, a suon di tintinnii ed energie tipicamente verdiane, Azucena eccelsa Ekaterina Semenchuk, confida a Manrico di essere sua madre. Entrambi ardenti di vendetta verso il Conte l’uno per aver approfittato della sua amata e l’altra per vendicare il rogo della madre. Queste tombe sono forse echi di vendetta e gli spiriti che ne balenano all’interno potrebbero giustificarlo?

Grande è l’amore del Trovatore per Leonora e lo canta, mentre questa convinta che in duello con il Conte, il suo Manrico sia morto ha deciso di prendere i voti, donde un drappello di suore riempie la scena e le tombe si alzano a mò di portico dietro il quale costoro restano assiepate. L’arrivo di lui la distoglie dal suo intento.
Quattro atti divisi, in due parti di oltre un’ora ciascuna. Nella seconda di esse la scena si trasforma, nei disegni registici e scenografici di dubbio gusto, di Àlex Ollé (La Fura dels Baus) e Alfons Flores, in una trincea e le tombe scoperchiate accolgono i soldati in guerra a fronte dell’assalto, sotto le mura di Castellor. Sulle note di “Di quella pira… l’orrendo foco “ la gitana ai ceppi vien portata in cima alla torre del castello e con lei il figlio. Mentre Leonora cerca il suo amato tra i caduti ode la voce di lui che canta il “miserere” e il desiderio della sua amata prima di morire.
Ella in preda a un veleno decide di cedere al Conte pur di salvare il Trovatore. Ed ecco la vendetta di questi, nel vedere la sua Leonora morire tra le sue braccia, abile esca della trappola al Conte. Qui non c’è più nulla da perdere e questi uccide Manrico. La chiusa è nella vendetta di Azucena che rivela al Conte che chi ha ucciso è suo fratello.
Tanti gli spettatori in sala, quasi al completo, curiosi e desiderosi di evadere dalle ambasce della vita quotidiana, mal pagati, perché anche qui trovano grigio, bianco, nero e tante lapidi, quindi morte. Bando al romanticismo, al sogno, alla distensione: tristezza e depressione invece, si legge nella facce sgomente del pubblico. E quel poco colore è nelle vesti di Leonora abito rosa antico e mantello giallo oro di difficile accostamento cromatico. Per fortuna la musica è incantevole; il coro, il cui maestro è sempre Roberto Gabbiani, e la direzione orchestrale di Jader Bignamini, ripagano delle attese.