È Fidelio di Ludwig van Beethoven ad aprire la Stagione 2024 qui al Teatro Petruzzelli di Bari, evento tanto più significativo in quanto è, in assoluto, la prima rappresentazione di quest’opera a Bari e in Puglia: nulla di cui stupirsi, in Italia il capolavoro è stato snobbato per anni, il debutto qui da noi risale al 1883 a Milano, seguito da Roma tre anni dopo, poi un vergognoso silenzio fino al 1927.
Troppo lontana, evidentemente, dal gusto italico, percepita epidermicamente come d’incerta natura, per noi che amiamo il melodramma o l’opera buffa: l’augurio è che possa essere recuperata nel nostro contemporaneo, andando in effetti a costituire un ottimo auspicio per questi tempi politicamente così poveri e oscuri. Fidelio, infatti, l’unica opera teatrale mai composta da Beethoven, oltre ad essere un Singspiel dove la potenza della musica si fonde con straordinarie vicende umane, è pure la partitura che si innalza come un faro di passione e coraggio nel vasto panorama musicale del genio tedesco, e la sua travagliata genesi riflette anche il clima politico acceso di quegli anni.
Quando Fidelio debuttò, nel 1805, erano passati dodici anni dalla rivoluzione che rovesciò la monarchia francese segnando come uno spartiacque l’inizio della nostra contemporaneità e che mutò profondamente anche il sentire dell’Autore; ma era passato solo un anno da che il giovane generale emergente Bonaparte si era incoronato imperatore di Francia: è noto che Beethoven lo aveva dapprima celebrato come colui che poteva cambiare le sorti del mondo, dedicandogli addirittura la sua terza Sinfonia, ma poi si era dovuto ricredere, cambiando il titolo della sua composizione nel più generico Eroica; da una settimana, poi, l’esercito di Napoleone aveva invaso la sua Vienna, i monarchi che avevano governato l’Europa per secoli tremavano di paura, di nuove idee di giustizia sociale e di uguaglianza si stavano diffondendo tra le masse e il continente stava entrando in un’epoca di profondo cambiamento.
Come molti dei suoi contemporanei, Beethoven era, come si è visto, profondamente coinvolto nella politica, e Fidelio rappresenta quindi, anche, un’opportunità per esplorare ed esaminare il panorama politico tra la fine del XVIII e dell’inizio del XIX secolo e, in qualche modo, per renderci consapevoli di come le idee che plasmarono quel nuovo mondo influenzino ancora il nostro quotidiano, la nostra storia, il nostro vivere civile. Dal punto di vista formale è un classico Singspiel, alternando momenti musicali a parti recitate, sul modello, anche musicale, dell’amatissimo Die Zauberflöte mozartiano, mentre da quello contenutistico, come del resto il dramma da cui è tratto – Leonore di Jean-Nicolas Bouilly, messo in scena a Parigi nel 1798 – è una pièce à souvetage, di gran moda in quegli anni della postrivoluzione, una sorta di commedia umana che ha modi e andamento di tragedia ma il finale, grazie ad un ben studiato coup de théâtre, si risolve invece positivamente.
Nata dunque come Leonore nel pieno della confusione e della tensione di una crisi così travagliata, fu immediatamente costretta ad essere ritirata dalle scene dopo tre rappresentazioni: nella Vienna occupata dallo straniero erano ben pochi i fans di Beethoven rimasti in città. Ripresentata l’anno dopo, nel 1806, fu ritirata però dallo stesso Autore per un conflitto con la direzione del teatro; messa in un cassetto e accantonata, sembrava destinata all’oblio quando invece, su insistenza di alcuni cantanti, fu sottoposta ad una profonda revisione dall’Autore, grazie anche all’apporto del poeta Georg Friedrich Treitschke.
In tal modo Leonore diventò Fidelio, la pantomima borghese si trasformò in messa in scena del cammino progressivo dalla tenebre verso la luce, percorso che in tedesco prende il nome di Aufklärung e che noi italiani chiamiamo illuminismo. Gli ideali beethoveniani erano, certo, quelli illuministi, anche se non esattamente giacobini: al centro della rivoluzione, in questo caso, non c’è il popolo, ma una donna nobile, aristocratica per il suo coraggio e i suoi ideali, se non di lignaggio, che salva il proprio marito, grazie anche all’intervento dell’autorità costituita che punisce i cattivi servitori dello stato.
Gli ideali di Beethoven erano e restano aristocratici, dunque, come pure tutta la visione dell’opera, i cui personaggi non vengono sviluppati dal punto di vista psicologico, rimangono incarnazioni di ideali, metafore di un mondo iperuranio in cui confliggono concetti, dottrine, principi, più che carne, ossa e sangue: se Leonora è personificazione della santità del matrimonio, fondamento della società civile, il marito Florestano, prigioniero politico, è immagine della giustizia offesa, Pizarro è personificazione del malgoverno e della corruzione che impedisce la buona amministrazione del potere, che trova invece in Don Fernando il suo compimento e la sua celebrazione.
Anche per tutto questo, la messa in scena di Fidelio è stata sempre problematica, perché c’è sempre qualcosa di sfuggente, di non esaustivo, nel cercare di rappresentare idee e concetti sulla scena, inevitabilmente è complicato e difficile tenere la barra dritta tra naturalismo borghese, come inviterebbe a fare soprattutto la prima parte, e astratto disegno delle idee, che domina la seconda.
Ci prova, questa volta, a raccogliere la sfida, questo l’allestimento prescelto dal Petruzzelli, lo stesso che ha aperto la Stagione 2021-22 del Teatro La Fenice di Venezia, la direzione, in questo caso, è affidata al Direttore Artistico Stefano Montanari, la regia è di Joan Anton Rechi, ripresa per l’occasione da Gadi Schechter: “Sono partito dall’idea” – dice il regista – “di realizzare una messinscena che avesse la sua ovvia e necessaria concretezza, ma lasciasse la porta aperta anche ad altre interpretazioni. In secondo luogo, dato che l’opera si svolge a Siviglia, ci tenevo che avesse una caratterizzazione ‘spagnola’.
C’è un fatto storico che tutti noi spagnoli abbiamo in mente e che fa parte della nostra cultura, la Valle dei Caduti (Valle de los Caídos), un monastero che si trova vicino all’Escorial, e venne costruito subito dopo la fine della guerra civile, negli anni Quaranta. Coloro che avevano perso la guerra, cioè i repubblicani, erano prigionieri politici e lavoravano alla costruzione di questo monastero, riducendo con questo lavoro la pena da scontare. In quel luogo viene costruita una statua gigante, che rappresenta un leader (potrebbe per esempio essere il re di cui si parla nell’opera). Questa statua, che non arriva mai alla realizzazione finale, viene appunto costruita dai prigionieri.
Questo elemento permette di dare una caratterizzazione un po’ mitologica di Fidelio, penso alla grande scultura di un tempio romano. Del resto l’opera di Beethoven ha un impianto mitologico in sé, perché richiama da vicino il mito di Orfeo che finisce agli inferi per riscattare Euridice. Leonore ricorda da vicino il mitico cantore, perché anche lei in un certo senso scende all’inferno per portare in salvo il proprio amato”.
Musicalmente la serata non lascia per nulla insoddisfatti, gli interpreti sono tutti credibili e apprezzabili, a cominciare da Helena Juntunen che riesce, per parte sua, grazie alla eccezionale voce cristallina ed una interpretazione appassionata, a darci ragione di un’ottima Leonora, in cui il controllo dell’emissione è superbo e splendido, capace di restituirci le lunghe frasi di Abscheulicher senza spezzarle in due, come troppo spesso si sente.
Alla finezza del fraseggio si è accompagnata un’efficace intensità espressiva, da collaudata attrice, capace di trasmetter a chi è seduto in platea le angosce, le speranze, le paure di Leonore con notevole convinzione e senza risparmio: la sua figura, celata dietro quella en travesti di Fidelio, diventa un enigma psicologico avvolto nella dualità di genere, ben oltre la superficie melodica, immergendosi nelle sfumature della condizione umana, dove l’amore e la determinazione si intrecciano in un intricato labirinto emotivo, veicolo attraverso il quale esplorare le contraddizioni dell’animo umano, sondando le radici dell’amore, del coraggio e del sacrificio come risposte all’ingiustizia e all’oppressione.
Al pari, a fianco a lei, il Florestan di Jörge Schneider, imprigionato ingiustamente, diventa il simbolo della sofferenza umana, carico di pathos, dispiegando un bel timbro vocale, capace di far vibrare le corde più intime dell’anima umana, evidenziato appieno dal percorso verso la luce, partendo dal tono cupamente intenso della sua aria di apertura fino al vero e liberatorio senso di euforia nella scena finale.
In questo senso la prigionia di Florestan diventa sul serio metafora della condizione umana, una cella oscura in cui risuona la dissonanza dell’ingiustizia e dove il buio, l’ombra, viene dipinta con pennellate musicali che ci scuotono, sollecitandoci a riflettere sulla lotta individuale contro le forze del male; la liberazione, alla fine, oltre che fisica, diventa un atto di emancipazione psichica, rappresentazione di come la forza interiore possa superare le barriere dell’ingiustizia.
Il potere, o meglio la sua rappresentazione, si barcamena, come detto – tal quale l’Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo di Lorenzetti a Siena – tra l’horror vacui di don Pizarro e l’ostentato buonismo di don Fernando, qui rispettivamente interpretati da Vito Priante e Modestas Sedlevičius.
Il primo dissimula il male che è in lui con nobile raffinatezza e zelo fuorviante, caratteristiche che molto bene s’adattano alla sua voce, brunita e seduttiva, elegantissima e calda: la linea vocale è pulita, l’emissione morbida e omogenea, insomma un Pizarro che non s’attesta, per fortuna, sulla caricatura del male assoluto che spesso si vede, smemore di come il male sia spesso banale e dall’apparenza assolutamente ordinaria.
Analogo discorso può valere per il suo contraltare, Modestas Sedlevičius, dalla voce potente e generosa e dal gran carisma: qui soffre un po’ perché il suo personaggio non offre, in fondo, molte possibilità di valorizzazione, ma la verve è molta, la voce ben proiettata, di grande profondità e intensità.
Il cast si completa con i personaggi, per così dire, borghesi, per nulla secondari nell’economia dell’opera, sempre in bilico – come la classe che rappresentano, del resto – tra intraprendenza, dinamismo e amor della ricchezza, da un lato, e generosità disinteressata, liberalità e amore per la vita, dall’altro: così il nobile e saggio Rocco di Tillman Rönnebeck esce dalla rappresentazione di maniera del custode del carcere così dannatamente borghese, se Leonora discende agli inferi Rocco è la sua guida sicura, sorta di Virgilio sapiente e rassicurante.
Anche la vivace Marzelline di Francesca Benitez non sfigura di certo, la voce è sicura e svetta nei concertati, come il cupo Jaquino di Pavel Kolgatin che tuttavia si rischiara alla fine, la regia gli assegna addirittura il compito di aprire e guidare la gran festa dell’allegria finale.
Stefano Montanari scolpisce la partitura con grande dignità e cura, come s’addice, del resto, alla superba musica di Beethoven: la grande intensità e attenzione ai dettagli riesce a renderci vivo il tormento e l’ispirazione dell’Autore che gettò la sua anima in quest’opera, creando un’esperienza sonora che risuona nel cuore degli ascoltatori.
Così il Coro, guidato da Fabrizio Cassi, con la sua forza collettiva, incarna la voce del popolo oppresso che chiede libertà e verità, grido di ribellione contro l’oppressione, celebrazione dell’amore che sfida le catene della tirannia, trasferendoci tutti, per un attimo, in un mondo dove la musica diventa linguaggio universale delle emozioni, superando le barriere linguistiche e culturali.
La vera liberazione, è il messaggio di questa musica, perfettamente veicolato dall’Orchestra e dal Coro, può emergere solo dalla solidarietà e dalla consapevolezza di tutti, un significato etico che va al di là delle singole vicende narrate, dando spazio alle voci interiori, alle coscienze collettive, sommessamente suggerendo che la vera trasformazione può avvenire solo attraverso un’interconnessione delle coscienze, una condivisione di intenti e desideri profondi.
L’ouverture si attesta, allora, veramente, grazie al gesto sicuro del Direttore, come dichiarazione di intenti, inno trionfante che anticipa le vicende epiche che si svolgeranno sul palco, guida attraverso l’oscurità dell’ingiustizia: lo squillo di tromba che ascoltiamo a metà del brano, che è diventato in qualche modo il simbolo stesso di tutta l’opera, ci rassicura sulla certezza, sospesa tra fede profonda e ingenuità, della vittoria del bene.
La regia ha voluto che, proprio sulle ultime note dell’ouverture, si alzi il sipario per mostrarci, in una sorta di antefatto, la trasformazione di Leonora in Fidelio, il suo travestimento che, in effetti, la vicenda e il libretto dà per scontato, iniziando subito in medias res: in qualche modo questo ci dice, fin da subito, molto sulla concezione di questa regia, piena di ottime intenzioni, ma che tuttavia non tiene presente come spesso le vie dell’inferno siano lastricate proprio di onesti proponimenti che però, come in questo caso finiscono, per l’ansia di troppo voler dire e spiegare, per essere superflui, oppure, in altri casi, al contrario, per la voglia d’esser sintetici, di mostrare pochezza d’idee e di costrutto.
Se, infatti, l’idea dell’ambientazione dell’opera nella Valle de los Caídos poteva essere ottima, così come quella dell’eternamente incompiuto colosso del leader, la sua realizzazione concreta sulla scena ci lascia molto perplessi, il disegno di Gabriel Insignares costruisce un enorme faccione di pietra che molto ci ricorda quello di un gran Buddha dormiente, non riuscendo, poi, la presenza degli attori sulla scena che si aggirano attorno alla colossale testa, ad evitare un effetto da Ritorno al Pianeta delle Scimmie, mentre, nella seconda parte, la discesa nell’inferno delle cave prigioni, sorta di malefico Maelström, risulta troppo visivamente ricordare quella – molto da vicino il ridicolo tallona il sublime – di Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena.
Suggestioni visive a parte, sconta la regia una paurosa carenza di idee, le poche che ci sono risultano semplice ovvia conseguenza dell’idea iniziale, oppure sono addirittura pessime, come Leonora che arriva a tirar fuori una pistola per minacciar Pizarro oppure un cappio che cala dall’alto, alle spalle della folla plaudente del finale, probabilmente per giustiziare (linciare?) il solito Pizarro, in straniante e stridente contrasto con i nobili intenti della musica e delle parole del giubilo universale.
Ma tant’è, anche così, Fidelio riesce ancora a muovere le nostre coscienze, ricordandoci – con sconcertante attualità – quanto la liberté sia certo essenziale, la legittimità di un governo necessaria, derivi dalla volontà di Dio o da quella popolare con libere elezioni, ma non costruisce, da sola, ciò che noi chiamiamo democrazia se non accompagnata, ed in qualche modo delimitata, dalle altre due parole ad essa inscindibilmente legate.
Così l’égalité, esercizio di giustizia che non può essere asservito al potere politico, diventa garanzia di buon governo, potendo liberamente condannare le eventuali malefatte di un qualunque premier che anche goda dei favori del popolo. La fraternité, poi, che potremmo declinare come solidarietà, ci pone al riparo dalle mire di quanti, all’interno della società, siano essi ceti o classi sociali, municipalità o regioni, intendano far da soli, a scapito degli altri, in nome di una presunta autonomia amministrativa che ci mette un nulla a diventar rapina, sopruso, prepotenza. La storia insegna, non c’inganni la veste apparentemente ingenua di Fidelio, che alla fine c’è sempre uno squillo di tromba che ci rasserena e ci dà pace, allora come oggi. E scusate se è poco.