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Enfatica routine d’un Rigoletto estivo

Per la rassegna "San Carlo Opera Festival", va in scena al Teatro San Carlo di Napoli "Rigoletto", dal 14 al 25 luglio

Sono grandi affreschi (a prima impressione più nelle corde manieristiche, enfatiche e bizzarre, di Giulio Romano, che nella precisione descrittiva ed emotivamente espressiva d’Andrea Mantegna, più adatti, dunque, come di prassi, al clima festaiolo e perfin volgarotto di Palazzo Te che non alla compassata ufficiosità di rappresentanza di Palazzo Ducale) inquadrati da gigantesche lesene che delimitano uno spazio centrale in cui si dipana l’azione dei tre atti, a suggerire – ma purtroppo non è così, lo svolgersi delle cose rivela subito la natura puramente estetica della trovata scenica – un’ipotesi metateatrale, che filtri la vicenda attraverso gli occhi e le zanne d’un potere pervasivo e totale.

Del Rigoletto che in questi giorni si mette in scena qui a Napoli, al Teatro San Carlo, per il San Carlo Teatro Festival, la prima cosa che vedi, all’alzar del sipario, com’è ovvio, son le scene, dovute alla matita di Francesco Zito, che, se pure scontano la prevedibilità della più vincolata – a tratti soffocante – tradizione, hanno però il pregio, ove mai lo sia, di tentar di straniarti nel mondo affatto fantasioso d’una Mantova che s’affaccia su fondali di tela dipinta, d’infilata attraverso ariosi archi rinascimentali che fanno da corona (come potrebbe esser diversamente?) a larghe tavole imbandite d’ori e damaschi.

Così le armature equestri, il bosco lussureggiante, la casa a due piani di Rigoletto, la casa senza piani (chissà perché?) di Sparafucile che dovrebbe offrile pendant, la luna sul Mincio che sembra Marechiaro e che non s’imbroncia neanche un po’ al risuonar di tuoni e fulmini, tutto il possibile déjà-vu che abbiate mai potuto vedere o anche solo immaginare nelle frequentazioni di quest’opera, era tutto presente: il che, per molti, potrebbe perfino esser piacevole, mi rendo conto, sentendosi a casa, ancora una volta, sulla solita poltrona, con agli stanchi piedi le stinte ciabatte sformate ma comode.

Strano destino, perdersi e sfilacciarsi nel consueto, per un’opera che recava con sé, quando fu presentata, più di centosessant’anni fa, il grande e rarissimo dono della novità autentica, costruita com’era – e com’è – su personaggi che trascinano su di sé il peso del peccato originale, né del tutto positivi né del tutto negativi, perseguitati, nella loro contraddizione, come l’intero genere umano, da una maledizione – che Verdi avrebbe voluto sottolineare già nel titolo – che viene pronunciata da Monterone ma che è quella che grava su tutti i figli d’Eva, condannati a vivere per sempre in bilico tra l’astio feroce e la tenerezza paterna di Rigoletto, l’innocenza celeste e il desiderio erotico di Gilda, la bellezza angelica e l’egotismo narcisista del Duca, l’efferata criminalità e il senso dell’onore di Sparafucile.

Uomini e donne vere, forse per la prima volta sulla scena d’un teatro d’opera, che infatti facevano molta molta paura alla censura. Dovrebbero – forse – farne ancor oggi, se non venissero, quei personaggi, al di là dell’indubbia professionalità degli interpreti, di cui diremo, trattati, come spesso succede, a mo’ di figurini retorici bidimensionali inseriti in ambienti sontuosi e rilucenti, e la musica – la musica del Maestro – ridotta a puro elemento estetico ed emozionale, invece che primario linguaggio comunicativo: opera come “spettacolo”, piacevole, certo, e prezioso, a tratti perfino affascinante, ma che con il teatro vero, se pure in musica, ben poco ha più a che vedere.

E, certo, prima di tutto è la regia che dovrebbe assumersi il compito di guidarci in questo viaggio di (ri)scoperta di qualcosa così carico di significati quando fu scritto, ma che il tempo potrebbe aver reso meno prontamente intellegibile al medio spettatore che segue sulla poltrona in sala, dovrebbe mediare tra la tradizione e la polvere degli anni e dei secoli e la nostra quotidianità contemporanea, saperci ridare il sapore e il colore dell’inesauribile novità di un capolavoro come questo. Dovrebbe, la regia di Mario Pontiggia, guidare i gesti degli attori in qualcosa che più li portasse a somigliare alla vita, mentre invece per lo più risultano inutilmente e inconsultamente gonfi d’enfasi vuota ed esagerata, in altri momenti poveri, invece, ed impacciati; dovrebbe guidare le masse secondo un atteggiamento che renda ragione a noi del loro essere lì sul palcoscenico, trovando, i movimenti loro, unico senso nella musica per cui furono concepiti, più che riempire spazi e volumi come ballerine di fila.

Dovrebbe, soprattutto, saper leggere il libretto, perché spesso, con regie “ipertradizionali” come queste, va a finire che il libretto si rispetti, in tutta apparenza, alla lettera, per elementi del tutto secondari mentre sciaguratamente si sorvoli, invece, in sostanza, in nome, magari, d’una presunta maggiore “spettacolarità”, su elementi invece sicuramente centrali e vitali. Un esempio? Sulla prima parte del primo atto di Rigoletto sono stati scritti fiumi d’inchiostro, perché se Rigoletto è opera di lacerazioni e conflitti e ferite, anche il suo sistema drammatico si basa su feroci e contrapposte opposizioni; nella prima scena Verdi ha impiegato con sapienza la “musica in scena”, tipico “effetto speciale” del teatro d’opera con cui si contrappongono più motivi musicali, prodotti da voci o strumenti in scena o dietro le quinte, oltre ai temi musicali eseguiti dall’orchestra vera e propria.

Così, mentre l’avvio viene affidato, in questo caso, a una banda che attacca una musica da ballo in La bemolle maggiore, in forte contrasto con il conciso e drammatico preludio che ha aperto l’opera, una piccola orchestra d’archi, composta da due violini, una viola e un contrabbasso, accompagna le danze. Sono ben tre, dunque, le fonti sonore impiegate da Verdi, con tre diversi specifici ruoli drammatici, come nel finale primo del Don Giovanni; a differenza che in Mozart, tuttavia, Verdi sviluppa gli eventi in modo diacronico, distinguendo nel tempo e nello spazio il significato di ciascuna delle tre fonti sonore: alla banda il compito di disegnare – trovandone riscontro sulla scena – un luogo esterno dove nulla è proibito, lato nascosto al popolo, dell’immoralità del potere, all’orchestrina in scena il ruolo formale delle danze galanti e formalmente raffinate che vanno delineando un’ufficialità di facciata, all’orchestra in sala il compito di accrescere il livello emotivo della tensione in ascesa che culminerà con l’entrata di Monterone.

Il libretto, non a caso, specifica che, al di là della Sala del Palazzo, ci sono porte nel fondo che mettono ad altre sale, pure splendidamente illuminate; folla di Cavalieri e Dame in gran costume nel fondo delle sale; musica interna da lontano e scroscii di risa di tratto in tratto; nelle sale in fondo si vedrà ballare. Si prescrive, cioè, ciò che la musica descrive e che si deve (dovrebbe) vedere: una scena divisa in almeno tra piani, da cui gli attori e le masse entrano ed escono partecipando e servendo da comunicazione tra i tre settori che coesistono nel tempo, se non nello spazio; in realtà ciò che si è visto ieri sera è una serie di siparietti con il numero dei ballerini, la ballata del Duca, i lazzi di Rigoletto, sketch che si inseguivano o si sovrapponevano, il tutto allineato in palcoscenico come in un varietà degli anni venti, rischiando di brutto l’effetto recita scolastica. L’idea finale era di gran confusione perfino per chi l’opera la conosce, nel grande e inutile agitarsi dei tanti sulla scena.

Senza infamia ma, purtroppo, pur senza molte lodi anche la direzione di Pier Giorgio Morandi, che alterna senza apparente motivo momenti di veemente liricità a qualche evidente difficoltà, tra non perfetti incastri ritmici, sfasature dei tempi, opacità sparse che caratterizzano, insomma, un’operazione di svogliata routine. Del baritono George Petean non posso che ripetere, pur con qualche distinguo, quanto detto in occasione dell’ultimo suo Rigoletto, visto proprio qui al San Carlo: ha una voce, pur se con qualche carenza nelle note acute, abbastanza corretta, morbida e dal bel timbro, pur senza esser dotata della precipua personalità che la renderebbe riconoscibile: convince, tutto sommato, la sua interpretazione, dalla buona dizione, pur se è da mettere in conto qualche limite nell’espressione. Aggiungo, rispetto a quella interpretazione, ma non so se metterla in conto all’attore o alla regia, ma propendo più per la seconda ipotesi, l’eccessiva enfasi del gesto che a tratti sfiora il risibile: peccato, perché in certi momenti l’enormità e l’incongruenza di certi stupori e certe reazioni, che sarebbero appropriati ad una “teatralità” della recitazione decisamente un po’ rètro, rovinano una prestazione per altri versi più che sufficiente.

Patrizia Ciofi ha la voce che tutti conosciamo ma in questa occasione fatica non poco a render credibile l’ardua Gilda con fragilissimo, vellutato lirismo, sopperendo con annosa professionalità all’insidiosa défaillance, particolarmente attenta alle sfumature e contraddizioni del personaggio. Saimir Pirgu, dotato di un piacevole timbro lirico-leggero, affronta la prova con sicura ed evidente professionalità, aiutato anche dalla presenza scenica: pure per lui segnaliamo ingenuità sul piano drammaturgico, in uno con un ostentato gusto per la “bella canzone” (vedasi in particolare La donna è mobile, condotta e, soprattutto conclusa con una punta di non troppo malcelata istrionica intensità). Mentre George Andguladze disegnava, purtroppo, uno Sparafuocile dalla voce dal timbro anonimamente spento e opaco e d’incerta proiezione, la Maddalena di Nino Surguladze, nonostante una linea di canto non perfetta, riusciva però. grazie ad una recitazione credibile, a dar vita ad un personaggio convincente. Il che, vista la serata, non è affatto poco.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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enfatica-routine-dun-rigoletto-estivoGiuseppe Verdi <br>RIGOLETTO <br> <br>Direttore, Pier Giorgio Morandi <br>Regia, Mario Pontiggia <br>Scene, Francesco Zito <br>Costumi, Giusi Giustino <br> <br>Il Duca di Mantova, Saimir Pirgu <br>Rigoletto, George Petean <br>Gilda, Patrizia Ciofi <br>Maddalena, Nino Surguladze <br>Sparafucile, George Andguladze <br>Marullo, Donato Di Gioia <br>Giovanna, Giovanna Lanza <br>Il Conte di Monterone, Gianfranco Montresor <br>Il Conte di Ceprano, Enrico Di Geronimo <br>Borsa, Cristiano Olivieri <br>La Contessa di Ceprano, Angela Fagnano <br>Un usciere di corte, Rosario Natale <br>Un paggio della Duchessa, Silvana Nardiello <br> <br>Nuova produzione del Teatro di San Carlo <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>San Carlo Opera Festival <br>Lingua, italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata, 3 ore circa <br>In scena dal 14 al 25 luglio 2018 <br>Napoli, Teatro San Carlo, 14 luglio 2018

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