L’autunno, dopo la pausa estiva, è per il Teatro San Carlo di Napoli tempo di riproposta di grandi produzioni del recente passato: torna, in questo caso, la stupenda Elektra che nel 2004 vinse il Premio Abbiati per le scene dovute all’estro creativo di Anselm Kiefer e che perfettamente descrivono, nella loro rovinosa essenza, insieme il dramma e l’animo della protagonista. Quando, infatti, nel 1906, Richard Strauss inizia a scrivere Elektra ha quarantadue anni e ha già percorso un lungo tratto della sua carriera artistica: cresciuto all’ombra di Hans von Bülow, conosce Brahms e il suo stile è in effetti agli inizi molto vicino a quello del musicista amburghese, nel pieno del mutamento culturale tra l’ormai classico romanticismo shumanniano che tramontava e la musica dell’avvenire che incombeva e imperversava.
Quando il violinista Alexander Ritter lo convince alla conversione wagneriana, lo fa a modo suo, evitando di cimentarsi subito con l’opera lirica, s’inventa quello che lui chiamava Tondichtungen e che viene impropriamente tradotto come Poema sinfonico. Ne scrive una prima serie: Don Juan, Macbeth e soprattutto Tod und Verklärung, vicinissimo al Tristan, e poi una seconda, Till Eulenspiegels lustige Streiche, Also sprach Zarathustra, Don Quixote; si avvicina alla lirica, campo d’azione della Gesamtkunstwerk, con molta circospezione: Guntram è una sorta di prova generale, seguita da Feuersnot e, soprattutto, da Salome, musicando i versi stessi di Oscar Wilde e descrivendone musicalmente il finale come una sorta di Liebestod al contrario, canto dell’amore attraverso la morte, sospeso tra due dissonanze che aprono e chiudono un’epoca, in cui la protagonista si ritrova a dialogare con una testa mozzata, e deve farlo con assoluta plausibilità, senza cedimenti all’horror, al ridicolo, al grottesco.
Fu, naturalmente, scandalo, che metaforicamente chiuse un capitolo dell’arte del Maestro, come sempre succede, solo per aprirne un altro, ma per questo aveva bisogno di un alleato: lo trovò nel giovane poeta Hugo von Hofmannsthal e nella sua Elektra, tratta da Sofocle, che aveva esordito sulle scene – certe coincidenze non finiscono mai di sorprendere – nell’ormai lontanissimo 1903, a Berlino, presso il teatro di Max Reinhardt; in quello stesso teatro, poco tempo prima, era stata infatti allestita Salome di Oscar Wilde, in entrambi i casi l’interprete principale era Gertrud Eysoldt. Finì, il caso, per accomunare in tal modo due opere che, perseguitate dalla stessa scandalosa fama, finirono per essere musicate entrambe da Richard Strauss, immortalando le due eroine come in preda ad una nevrotica ossessione che, in ambedue i casi, culmina, attraverso un crescendo sensuale e provocatorio, in una danza erotica con il morto, Jochanaan – o meglio la sua testa – nel primo caso e il fantasma di Agamemnon, padre amato e immaginato che la costrinse a sapere ciò che avviene tra uomo e donna, nel secondo.
Sa, Elektra di Hofmannsthal e Strauss, turbare fin nell’intimo, sorta di Ofelia che rompe in mille pezzi Amleto – soffrendo d’isteria, male del Secolo breve che Charcot aveva per primo descritto e che il dottor Freud insieme a Josef Breuer aveva appena dimostrato non esser d’origine organica ma derivasse da ricordi traumatici rimossi – vergine pura e folle, santa e sensuale, nutre la sua patologia come declinandola in bestialità, nel fango, vivendo accanto agli uomini e alle donne ma come una fiera chiusa nella gabbia.
Quando si apre il sipario è naturalmente la scena che, benché la si sia vista più volte, non manca di colpirti sempre con tutta la forza del suo carattere aspro e magnifico: Anselm Kiefer immagina la sanguinosa reggia degli Atridi come una disabitata costruzione a piani sovrapposti che s’incunea nella terra con l’avidità d’una miniera a cielo aperto, sorta di ziqqurat negativa e concava che prende le sembianze di polveroso relitto preindustriale dal cemento ormai eroso dalla ruggine del tempo e dell’odio. Tutto suggerisce che divinità ctonie dai perversi intenti s’aggirino qui, nelle disadorne terrazze, nei bui anfratti e anditi che traforano mura e bastioni, evitando come possono balle di paglia in cui supporre annidarsi animali, tra sporcizia fisica e mentale, alienazione e corruzione che aspirano ad una risolutoria pulizia materiale e morale.
Certo è figura d’Elektra – che dirà di sé al fratello ritrovato Ich bin nur mehr der Leichnam, non sono che un cadavere – questa maceria d’un passato che fu, profezia di ciò che sarà: s’intravedono, sotto l’opaco e polveroso grigiore che sembra tutto omogeneizzare in una scialba piattezza l’ordinarietà del male, macchie, come d’ematoma, effetto d’un trauma antico, che dal cinabro rossastro virano rapidamente nella gamma del violaceo azzurrino, o del nero ossidiana, mentre altrove si vestono di giallo o d’ocra verdastro, come fosse materia organica, che si sgretola lenta a mo’ di piaga purulenta in suppurazione.
È su questa scena che Klaus Michael Grüber costruisce la sua regia, ripresa da Ellen Hammer, sulla base di una drammaturgia che prevede Elektra, sempre in scena, abitare invariabilmente il piano del palcoscenico, mentre gli altri personaggi, in particolare la madre Klytämnestra e la sorella Chrysothemis si muovono partendo dai piani superiori per scendere fino a lei, in basso: trova giustificazione, certo, tutto questo, nel degrado morale e fisico della protagonista, che si autoesilia nel cortile del palazzo wie ein Tier in seinen Schlupfwinkel, come un animale nel suo nascondiglio; tuttavia Elektra non è solo la riscrittura di una tragedia classica con moderna sensibilità, è anche descrizione dell’itinerario di un’anima sofferente, in qualche modo quel palazzo abitato da regine, giovani principesse ed usurpatori è immagine della mente sua, dei suoi inconsci desideri e pulsioni respinti giù in fondo in fondo da ingombranti istanze superegoiche ormai irrigidite entro gli abiti del potere (sono dello stesso Anselm Kiefer gli splendidi costumi) come larve all’interno della loro crisalide chitinosa.
A me piace tuttavia maggiormente pensare alla scena di Kiefer come un enorme teatro, del tutto speculare al nostro, ai nostri palchi che si sviluppano in verticale, alla platea, ad un palcoscenico – interiore o reale poco importa – dove l’isteria, la più teatrale delle nevrosi, la grande simulatrice, trovi modo e spazio per mettere in atto la sua più intensa rappresentazione che culmina nella vouyeristica danza del finale sotto la luce dei riflettori opportunamente manovrati da servi e ancelle: non era stato forse lo stesso Charcot che pochi anni prima, alla Salpêtrière, andava organizzando vere e proprie mise en scene teatrali, lui medico-regista, le pazienti-attrici e danzatrici complici e simulatrici in un gioco di sguardi e di ammiccamenti?
Sotto il profilo musicale ci sono forse, tuttavia, le migliori novità di questo allestimento, partendo dalla decisione della Direzione Artistica di affidare alcune parti ad Artiste del Coro del Teatro, diretto da Fabrizio Cassi e altre addirittura ad Allieve dell’Accademia dello stesso Teatro: così Chiara Polese è Die Vertraute, Anna Paola De Angelis Die Schleppträgerin, Valeria Attianese Die Aufseherin, mentre Sechs Dienerinnen sono Lucia Gaeta, Franca Iacovone, Linda Airoldi, Sabrina Vitolo, Takako Horaguchi, Deborah Volpe.
Ricarda Merbeth è Elektra, carne, sangue e voce, che è ampia e fresca, nonostante la tensione della scrittura straussiana: senti bene le note alte, acuti sontuosi in tutto il loro nitore che nulla sottrae alla potenza, senza incertezze ascolti le note sostenute, ti sorprendi a considerare come la voce si mantenga perfettamente omogenea in tutti i registri e per tutto il tempo della rappresentazione: e così emerge – e nessuna orchestra potrebbe mai coprire quella voce – con forza ma, insieme, con inusitata semplicità, la complessità del carattere della protagonista. Un’interpretazione enorme.
Evelyn Herlitzius è vocalmente e teatralmente avvincente. La sua grande voce di soprano wagneriano e strussiano – la vera erede di Dame Gwyneth Jones – è sempre perfettamente incisiva, radiosa, eccelle nel ruolo di Klytämnestra grazie al suo aspetto apparentemente senza età, riuscendo amabile e gelida al tempo stesso, fanciullesca e demoniaca, indifesa e dura. La Chrysothemis di Eilsabeth Teige riesce a commuoverci con una linea di canto flessibile e allo stesso tempo vigorosa con note alte potenti e timbriche scolpendo questo personaggio alla fin fine abbastanza determinato ben oltre le apparenze.
A queste tre donne, dai caratteri molto diversi, si deve, sul piano musicale, gran parte della riuscita di questa Elektra, in particolare all’omogeneità timbrica delle voci, all’ottima dizione, al grande impegno interpretativo; ad esse si uniscono le voci maschili dei due principali interpreti: il tenore britannico John Daszak disegna con voce e interpretazione il perfetto Aegisth, reale come – pensiamo – l’avessero ideato gli Autori. La sua voce, che certo non difetta di forza e carattere, riesce ad adattarsi, con grande versatilità, ai vari mutamenti emotivi e psicologici, modulandola e incupendola con intelligenza, facendo emergere sentimenti contrastanti, via via lo sconcerto, l’astio, il rifiuto, la paura.
Łukasz Goliński è un cantante in forte ascesa, ha interpretato Oreste anche nell’Elektra di quest’anno al Covent Garden di Pappano e Loy con Nina Stemme protagonista: la sua interpretazione qui al San Carlo, che si muove tra la consapevolezza della sua mission e l’ardore dell’amor fraterno ci dà ragione del suo crescente successo. Completano il cast Giuseppe Esposito, Antonella Colaianni, Valentina Pluzhnikova, Arianna Manganello, Regine Hangler, Miriam Clark, Andrea Schifaudo, Simonas Strazdas.
Mark Elder dirige l’Orchestra del Teatro San Carlo con inusitato empito drammatico, esaltando i pur trattenuti squarci sinfonici e cercando in ogni modo di sottolineare gli spezzati leitmotiv che offre la scrittura di Strauss. In tal modo, inutile girarci troppo intorno, si sottolinea – credo del tutto volutamente – la particolare coloritura tardoromantica ancora posseduta dalla musica dell’Autore, in questa particolare fase della sua parabola artistica, da sempre, invece, considerata come il punto più vicino all’espressionismo del Der Blaue Reiter e alla musica atonale shoemberghiana – cui non arriverà mai – prima del totale cambiamento di rotta del Rosenkavalier. Più volte, nel corso della rappresentazione di ieri sera, mi son trovato a pensare a particolari momenti del Ring, cui mi portava la fantasia sulle ali di quella musica che stentavo quasi a riconoscere, accostandola mentalmente ora al canto delle Valchirie timorose dell’ira di Wotan ora al gioioso contrappunto del saluto al Sole dopo il risveglio di Brünhild: echi, richiami, traslucidi miraggi musicali che tuttavia diventano forse qualcosa di più che semplici suggestioni, frutto invece, secondo me, di approfondito lavoro sulla partitura da parte di chi offre questo particolare punto di vista alla riflessione di tutti.
Certo, in tal modo, si perdono quasi le malie espressionistiche che animano, per esempio, il sogno di Klytämnestra, forse il momento più vicino all’atonale dell’intera musica di Strauss, e perfino i leitmotiv subiscono una qualche mutazione, almeno nella percezione: ci sfugge quasi del tutto la sconvolgente novità dell’Elektra-Akkord e le sue irrisolte inquietudini, mentre in tal modo risuonano ben più chiari e potenti quelli dalla più semplice struttura, fatta di solo tre o quattro note – come del resto è per la musica di Wagner – che risuonano come carichi di nuovi significati, come il tema ossessivo di Agamemnon, che permea tutta la rappresentazione e che pure la chiude, risuonando tre volte come trasfigurato di nuova luce.
Tuttavia questo insistito accento ci dice soprattutto che, perlomeno all’epoca della composizione di Elektra, la passione wagneriana non si era ancora esaurita nell’Autore e che i conti con la sua mistica non si erano affatto chiusi, anni prima, come pensavamo, con Salome: è proprio vero – penso uscendo dal teatro, dopo i calorosi e non rituali applausi – che non si è mai abbastanza vecchi per non imparare qualcosa di nuovo.