Una singolare coincidenza storica è alla base dell’idea registica che crea questo particolarissimo allestimento di Manon Lescaut, qui a Napoli al Teatro San Carlo, in coproduzione con il Teatro Liceu di Barcellona e il Palau de las Arts de Valencia, perché il 1893 è un anno, per molti versi, cruciale nella storia del melodramma italiano (e non solo): nel febbraio di quell’anno, il 1°, l’opera di Puccini trova finalmente, dopo mille ripensamenti e peripezie, soprattutto legate alla travagliata genesi del libretto e alla concezione drammaturgica che Puccini voleva assolutamente distinguibile dall’omonimo capolavoro di Massenet, la strada della prima rappresentazione, al Regio di Torino, riscuotendo un notevole successo che porta in primo piano il giovane compositore; il 9 dello stesso mese il vecchio Verdi, con la complicità dello stesso editore di Puccini, Giulio Ricordi, a cui tanto si deve sia per l’una sia per l’altra opera, e di Arrigo Boito, porta finalmente sulla scena la più concettuale delle sue opere, Falstaff, frutto estremo della intensa maturità del più grande tra i musici italici, summa della sapienza musicale e drammatica sua, ma, al tempo stesso, definitivo addio ad un’era musicale tra le più fertili che il mondo abbia mai visto. Per uno strano scherzo del destino – o per necessità storica, fate voi – in quello stesso anno, a distanza di pochi giorni, dunque, due opere chiudono l’era romantica e cominciano a scrivere una storia nuova e, si badi, questo duplice movimento, potremmo dire in battere e in levare, avviene in entrambe le opere e nella piena consapevolezza di entrambi i musicisti.
Due opere che, pur nel loro diverso peso specifico, portano entrambe, in dissimile ma non per questo meno verace modalità, stimmate d’incompiutezza ed incoerenza, segnando una pietra miliare nella storia della musica: in particolare per Manon, è facile ritrovare nella partitura, dunque nella stessa intrinseca struttura musicale dell’opera, tanto Verdi e tanto Wagner, segno evidente, da un lato, dell’avvenuta e ormai matura necessità di sintesi tra due concezioni musicali per lungo tempo apparse inconciliabili, ma di cui invece si sperimenta, da parte dei migliori – Puccini è il primo tra questi – e si tocca con mano la possibilità non di una estrema e inutile pacificazione, ma invece, d’una qualche alchemica e segreta sinossi che possa condurre, alla fine, ad intravedere un nuovo cielo e una nuova terra, frutto d’inesausta esigenza di novità: e dunque, in barba e a dispetto di quanto risulti mera rielaborazione dei passati stilemi – in tanti hanno contato le parti, le note, gli accenti, fino a insinuare sommessamente addirittura il plagio, lì del Gotterdammerung, lì del Ballo in maschera – lo stile pucciniano non è difficile rinvenire, accanto, a lato, al di sotto e al di sopra di quelli, una modalità e un accento che, per noi fortunati che già conosciamo la storia di ciò che poi sarà, identifica in quel passaggio un che di Bohème, in quel colore Tosca, in quell’armonia Butterfly. Frammenti. Perché frammentaria è l’opera, sia nella musica sia nel libretto, ripensamenti, pentimenti e rimpianti: il limite è questo, ma è anche l’estremo incompiuto fascino.
Ma in quello stesso fatidico – come abbiamo visto – anno di grazia, molto lontano dalla vecchia Italia e dall’Europa, in quelle terre realmente nuove, sotto cieli veramente intatti, negli Stati Uniti, fuori dal porto principale del paese, New York, il governo costruisce un’isola artificiale, Ellis Island, per filtrare il flusso continuo di immigrati che arrivano. Questa coincidenza di date e la presenza, nella vicenda di Manon, del forzoso esilio in Louisiana, che diventa specchio dei viaggi sui grandi transatlantici dei migranti dello scorso secolo (ma che a sua volta è indiscussa icona dei moderni profughi ed immigrati) ha spinto il regista Davide Livermore, dall’intelligenza creativa che sempre gli viene riconosciuta, anche da chi lo contesta, a creare un presente, concreto e reale, pur se non contemporaneo a noi spettatori, da contrapporre ad un passato che viva solo d’allucinata memoria: il sipario si alza, così, all’inizio dell’opera, nel 1954, ad Ellis Island, nel momento della sua definitiva chiusura. Un uomo, un vecchio, un dolente ottuagenario Des Grieux (l’attore Lello Serao) è qui per un viaggio nella memoria e nel dolore, tra queste mura che, sessant’anni prima, han visto Manon, deserta donna, cadere nel profondo deserto dell’anima. L’intera opera, tutta la vicenda, temporalmente spostata all’epoca della sua composizione, diventa lungo, appassionato, dolente flashback di liquidi e cangianti ricordi – grazie anche agli effetti di Video Design di D-wok – essenze di luci ed ombre che inesauste cambiano vicendevolmente verso e polarità, come il carattere di Manon, eternamente oscillante tra l’amore e l’oro, il vizio e la virtù, la bellezza e l’abisso.
Così l’enorme sala del Centro di Accoglienza, dalle volte opprimenti, disegnata da Gioforma e dallo stesso Livermore, illuminata dai grandi lampadari art déco e dalle vetrate attraverso cui fuggono nuvole lontane – cieli nuovi vietati dal dolore – diventa, tra realtà e delirio, sogno e ricordo, evanescenza e solidità, teatro d’una rappresentazione frammentata e quasi astratta, in cui il desiderio si fonde con la passione e questa con il dramma, di volta in volta a rappresentare la stazione d’Amiens, con l’enorme locomotiva a vapore, quasi fiabesca nelle sue promesse schiette ed esaltanti come la gioventù, il salotto rosso del palazzo di Parigi, tra ori e velluti che nella lontananza – e nell’odio – del ricordo si fan più cupi e ostili, elementi dell’eros pornografico e volgare che sempre s’accompagna al potere, il porto di Le Havre, tra cenciosi residui umani – migranti dell’anima prima ancora che dei corpi – del tutto indistinguibili, nelle livide luci dell’alba, dagli involti di stracci che ingombrano la strada per l’imbarco, verso una diversa vita – o una diversa morte – sulla grande, inconcepibile nave, che restituisce un sentimento esattamente opposto, nella sua opprimente, ossessiva enormità, al Rex felliniano del piacere, del sogno e del desiderio, l’America, infine, d’una trascolorata e terrosa Star and Stripes, che s’incarna in soldati armati a guardia d’un catarroso e febbricitante lazzaretto, anticamera della morte, piena giustifica e beffarda ironia delle parole dell’affranta Manon: terra di pace mi sembrava questa, svelando, alla fine, tutta intera, la menzogna.
Ciò che colpisce è la perfetta aderenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta, il Settecento dei madrigali e dei belletti viene prontamente relegato nel limbo del grigio passato, perfino certe debolezze riconosciute dell’opera, cui in parte abbiamo accennato, miracolosamente sembrano sanarsi: per esempio l’annoso scoordinamento delle scene, dovuto alla tardiva eliminazione del primitivo second’atto, che non ha mai soddisfatto nessuno, in primis il Maestro che in più riprese (ri)metterà mano all’opera, improvvisamente è apparso problema del tutto trascurabile, acquistando credibilità il tessuto drammaturgico proprio grazie all’introduzione dell’elemento stabilizzatore del personaggio – nuovo ma unificante – del Des Grieux vecchio e alla sua presenza costante in scena, vestito di bianco e perennemente illuminato dal riflettore. A questa nuova concezione dell’unità drammatica dell’opera, vera e rimarchevole novità di questo allestimento, va di pari passo, com’è ovvio, la ricerca sul piano musicale.
La direzione di Daniel Oren è stata, forse è superfluo rimarcarlo, notevolmente originale e intelligente al pari della regia, bandendo ogni inutile vezzosità, cercando e ottenendo, dall’ottima Orchestra del Teatro San Carlo, e dal Coro sempre diretto al meglio da Marco Faelli, passione e pathos, intensità e profondità dei sentimenti, senza paura dell’effetto o dell’eccesso, rischiando anche, nell’ansia di ricerca del brivido emotivo, nell’insistito fortissimo orchestrale, di soverchiare la voce degli interpreti: così è accaduto soprattutto nel primo atto; successivamente, tuttavia, il difetto si è stemperato, le voci irrobustite acquistando coraggio. Così Ainhoa Arteta, da noi praticamente sconosciuta ma, dicono, gran diva in Spagna, riesce a dare gran credibilità all’incostante Manon, aiutata da una sicura presenza scenica e ad un’ottima voce, estesa nell’acuto, di grande ampiezza e morbidezza, molto precisa musicalmente e incisivamente espressiva. Non da meno Murat Karahan, classico tenore dallo squillo vigoroso che evita volutamente di forzare sui toni drammatici per mantener un passionale afflato lirico. In complesso una bella produzione, premiata da lunghi e convinti applausi, mentre, al chiudersi del sipario sulle ultime note dell’orchestra, il vecchio Des Grieux, uscendo, appende la foto di Manon alla tela: anonima in mezzo ai tanti – come lei vittime dell’egoismo umano – che subito appaiono a farle da corona, come in una silente, tranquilla esplosione di luce.