[rating=3] Il letto è bianco, abbagliante, al centro del palco, immerso nel nero profondo – vuoto spaziale senza stelle – che fa sembrare Violetta, che vi è stesa sopra, piccola, inerme, inadeguata, sola. Mentre l’orchestra canta il secondo preludio con estenuata lentezza – l’inno triste di morte – si materializzano, illuminati dalla stessa luce viva che adesso sempre più sembra emanare dal letto – che ora è, certamente è diventato, centro assoluto dell’universo – incubi e brani, lacerti atomizzati d’un passato infelice che vengono a chieder ragione del loro stesso esistere, qui, al letto della moribonda, come osceni e suppurati brandelli che tra poco ritorneranno all’origine delle cose, polvere nella polvere dell’infinito, ma che per ora si agitano e ridono e urlano e piangono al letto di colei cui appartengono, fino a far prevalere l’inquietudine sullo sfinimento, l’ansia sul torpore. Violetta non lo sa, ma, come in quadro di William Blake, gli smaniosi spiriti dei nostri rimpianti vengono all’alba, a tormentare ancora, una volta di più, il rammarico di chi muore: e ricorda certamente un’altra alba, dopo una notte insonne nei bagordi – le pompose feste cui era avvezza – quando, spenti i lumi della notte i domestici, e riflettendo sulla propria vita e il senso di quella, alla luce livida dell’aurora, una voce – la voce d’Alfredo – dalla finestra le seppe indicare una via, un significato, un desiderio.
Siamo al terz’atto di Traviata, qui al San Carlo, la Traviata di Ferzan Özpetek, la Traviata turca nata proprio qui tre anni fa e di qui partita per altri lidi, pur lontani – perfino Honk Kong – tornata a Napoli a riscuoter successi (ogni posto era ieri sera occupato, e siamo già al quarto della prevista programmazione), a conferma, certo, del fascino che la vicenda di Violetta e Alfredo sa ancora esercitare – in assoluto oggi la più rappresentata al mondo – ma pure, sicuramente, di una messa in scena che dosa con sapienza amore per la tradizione (cui i melomani, si sa, son terribilmente attaccati) e gusto dell’innovazione, con tocchi di modernità (spostata la vicenda in una bella époque che permette al costumista Alessandro Lai voli inusitati d’eleganza), sfumature d’oriente (i tappeti, le sontuose ottomane, le mezzelune a decorazione di portali e cancellate, dimenticati samovar), citazioni filmiche (i frequenti fermo immagine, i déjà-vu ostentati e ripetuti di famosi film, il personaggio stesso di Violetta, rielaborato, nella fantasia registica, e restituito a noi, come in un freudiano camuffarsi, sotto forma di sfumata ma sicura citazione di Laura Antonelli, massime nel finale del second’atto, scena madre per eccellenza).
Così, giunto ormai alla terza visione di questa mise-en-scène (oltre alla nascita partenopea e a questo trionfale ritorno, una trasferta barese l’anno scorso con la direzione del giovane Rustioni e l’interpretazione della sempre eccellente Elena Mosuc), mi tocca ammettere la grande potenza visiva di questo allestimento, che si avvale delle scene di Dante Ferretti, belle fino al pianto, evocative d’un universo etico e morale che trascende la formale datazione dell’ambiente – pure quella scelta da Özpetek, che si sovrappone, senza scalfirla, all’originale del bel mezzo del secolo romantico – per addentrarsi, con la sicurezza dei propri mezzi, nel gran mare delle idee universali e trascendenti che, per la loro stessa natura, han da guardare a forza all’astratta sostanza delle idee, più che alle loro derivazioni imperfette e finite: così, nella scena che abbiamo cominciato all’inizio a descrivere, culmine della rappresentazione, è la luce, la luce pura ad esistere e a far esistere, luce che non può che provenire da altro se non da Violetta e dal suo letto di morte; e mentre i ricordi e gli incubi della febbre e del tormento vivono pur essi di propria luce, perché più certe e sicure emanazioni dell’animo suo, non è così per i personaggi reali – Annina, Grenvil, e poi gli stessi Alfredo e Germont – che emergono dal buio alla luce solo in rapporto a lei, disegnati, meglio, dalla sua luce, traendo cioè ragione e sussistenza della propria vita dalla vicinanza con lei, come Cristo sul crocifisso, già redenta in virtù dell’amore e la cui morte servirà a redimere il mondo, gli altri, quanti essa ha cari al mondo.
Certo, ci sono anche le innegabili cadute di gusto, come il famoso passaggio di mano della famigerata giarrettiera nella fatidica scena centrale del colloquio tra Violetta e Germont, già del resto in passato segnalate: episodi e caratterizzazioni che sono tanto più gravi in quanto sottendono equivoci sulla natura dei personaggi, da parte di una regia e una interpretazione senz’altro più indirizzata alla Marguerite Gautier che alla Violetta Valery, più a Dumas che a Verdi, cioè, a una redenzione ed espiazione che non può dirsi completa senza la morte, una concezione tutto sommato borghese e veteroilluminista (tipica di Dumas), piuttosto che ad una visione pienamente romantica e rivoluzionaria (quella della grande intuizione verdiana) di una salvezza riscattata già pienamente e totalmente attraverso l’amore e di cui il grido Amami Alfredo è espressione musicale e drammatica; la morte, in questo caso, è accessorio che ha indubbiamente il suo peso drammatico ma nulla aggiunge e nulla toglie alla perfezione del personaggio e del dramma: Violetta, come molti del resto hanno pure immaginato, potrebbe anche non morire, e in braccio all’Alfredo suo andarsene guarita a riveder Parigi. Certo, se non ci fossero questi fraintendimenti, oggi parleremmo di una delle migliori Traviata degli ultimi anni, dotata cioè di una vera anima verdiana, oltre che di esaltante bellezza: gioia per gli occhi e per il cuore.
È comunque sempre stata fortunata, questa Traviata, ad avere interpreti d’eccezione e d’eccellenza: la direzione musicale è questa volta stata affidata al Maestro Nello Santi, il cui nome è, da tanti anni ormai, garanzia indistruttibile di scelte culturalmente solide e musicalmente efficaci: sceglie stavolta, il grande direttore, di sorprenderci ancora una volta dando un taglio che fortemente accentua le sonorità più sottili e normalmente nascoste, eliminando – miracolo dei grandi direttori – ogni traccia dei famigerati zumpappappa del Cigno, così aspramente rimproveratici dai teutonici irrisori, per restituirci invece un Verdi insolitamente complesso e sobrio al tempo stesso, estenuato e languido, perfino, in certi passaggi cruciali, come l’Amami Alfredo già ricordato, oppure il gran concertato del secondo, per acquistare invece concitazione dove ci vuole, alla ventata della luce che sorge e spegne i lumi della notte di Si ridesta in ciel l’aurora, oppure, anche, e con maggior sorpresa, proprio alla fine, verso il finale ultimo, a sottolineare, forse, concitazione e urgenza dell’anima. Taglia pure, per quel che vale con la mia ammirata approvazione, la famigerata cabaletta No, non udrai rimproveri, che invece, cantata, spezza l’andamento drammatico e lo rende (al contrario di quel che pensa Gossett, ma concordemente a Toscanini) piuttosto ridicolo irrisolto e poco credibile (i gusti son gusti, come si vede).
La Violetta che ho ascoltato ieri sera è Cinzia Forte, soprano napoletano, pur se romano d’adozione, dalla notevole presenza scenica e dolce musicalità, con espressioni ed accenti convincenti e suadenti, pur se un po’ flebili in certi momenti: se si unisce tutto questo all’indubbia professionalità sua, si delinea una primadonna di notevole spicco, che giustifica il prolungato applauso ottenuto alla fine. Stefan Pop è un Alfredo irruento e stentoreo quanto basta, dal timbro potenzialmente ricco e dalle interessanti sonorità, che ha dato anche modo di rendere alcune sfumature drammatiche, certamente impresa non facile, vista la generale immobilità psicologica del personaggio, piuttosto convenzionale, come ben si sa: la lettura della lettera di Violetta è per esempio uno di questi momenti, in cui si succedono, e rapidamente, diversi stati d’animo ed emozioni: l’attesa, la rassicurazione alla lettura del primo rigo (bravo, raramente si percepisce questo), la disperazione, la sorpresa (per l’arrivo di Germont). Giorgio Germont, appunto, è stato interpretato da Giovanni Meoni, dalla voce calda e ricca di espressioni, molto ben impostata; tuttavia la sua Di Provenza, pur molto applaudita, per un di quei fenomeni scarsamente spiegabili, m’è apparsa piatta e povera, non già all’orecchio, dove invece risuonava delle giuste e accorate armonie, ma al cuore, dove non riusciva per nulla ad arrivare: cose che succedono a chi troppo, e da troppo, frequenta le Stagioni d’opera.