Nel Sacre di Dewey Dell la trasformazione non è un’immagine: è un principio coreografico. Tutto comincia da un movimento quasi impercettibile; un bruco che striscia dalla penombra, un filo di seta che cade, un gesto larvale che chiarisce subito il programma del lavoro: riportare Stravinsky alla sua materia originaria, dove il ritmo è biologia e la danza metamorfosi. Non una citazione, ma una rifondazione.
Le note registrate della partitura di Stravinsky, nell’incisiva esecuzione di MusicAeterna diretta da Teodor Currentzis, non funzionano come semplice supporto sonoro. Sono un terreno tellurico da cui affiorano creature irregolari, danzatori insetto che sembrano emergere da una tavola entomologica animata. Dewey Dell non cerca l’epica del sacrificio né la coralità tribale di Nijinsky, Béjart o Pina Bausch; il suo Sacre diventa un rito di passaggio microscopico, un mondo in miniatura che si fa cosmologia.

La scenografia di Vito Matera, sospesa tra fiaba oscura e immaginario proto-cinematografico, stringe lo spazio come un piccolo teatro dei film muti di Georges Méliès. Le quinte convergono in profondità, disegnando un antro, una tana, una cavità organica che sembra respirare. È da quel ventre che, a un certo punto, emerge un ragno monumentale, che attraversa la scena con un’andatura solenne e sinistra, figura che diventa subito emblematica.
I costumi sono una delle invenzioni più felici. Texture, esoscheletri, filamenti e setole danno vita a un bestiario animato di insetti, aracnidi e piccoli esseri iridescenti, interpretato da Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Alberto “Mix” Galluzzi, NastyDen e Francesca Siracusa, che accompagna l’arrivo della farfalla, tornata dal bozzolo dietro le quinte. La metamorfosi non è un tema; è un linguaggio. Le scene si aprono placide, quasi esitanti, poi esplodono in scatti, torsioni e rilasci repentini, come se la danza imitasse la logica intermittente del mondo animale.
Le sorelle Castellucci, insieme a Vito Matera e Demetrio Castellucci, sembrano aver atteso questo confronto con Stravinsky. E quando finalmente lo affrontano, scelgono la via più radicale: riportare Le Sacre du Printemps alla sua radice non umana, al suo impulso di rigenerazione primitiva, terrestre, prelinguistica. La primavera come turbamento, come gioia feroce, come vita che nasce sempre sul margine della morte.
Non sorprende che lo spettacolo abbia ottenuto il Premio Danza&Danza 2023 alla migliore produzione italiana. È un lavoro che non chiede adesione, ma ascolto; che non cerca la bellezza come forma, ma la sua origine materica. Il pubblico del Teatro Manzoni di Pistoia, attento e numeroso, ha seguito ogni vibrazione come davanti a un piccolo mistero naturale.
Dewey Dell filtra la partitura di Stravinsky attraverso l’immaginario degli insetti, dei semi, delle muffe, degli organismi in cui vita e decomposizione convivono senza conflitto, in un loop continuo. In quella cavità scenica, simile a un utero primordiale, il corpo torna a mostrarsi per ciò che è sempre stato: un essere fragile che la danza, per un istante, trasforma in pura metamorfosi.