Sembrerebbe la storia di un “patto col Diavolo”, The Place, il nuovo film di Paolo Genovese che richiama la struttura corale del precedente successo, Perfetti sconosciuti. In realtà, il Diavolo, o meglio un suo esecutore, c’è, ma non agisce direttamente, sono gli uomini che con la loro vanità, lussuria, con le loro pulsioni e la loro rabbia diventano artefici di azioni deplorevoli e spregevoli. Più che il Male in carne ed ossa qui c’è una metafora, una grandissima metafora personificata, che rappresenta il lato più oscuro che ogni anima ha.
La storia è molto semplice. C’è un gruppo di personaggi, Marco Giallini, Vinicio Marchioni, Rocco Papaleo, Vittoria Puccini, Alba Rohrwacher, Alessandro Borghi, ognuno con un dramma: chi sta perdendo il marito, chi il figlio, chi la propria bellezza, chi la fede in Dio, disposti ad infrangere qualsiasi regola morale pur di raggiungere il proprio egoistico obiettivo. E le regole in gioco sono il non uccidere, il non rubare, il non stuprare una donna. A turno, e spesso anche incrociandosi, queste persone si siedono al tavolo di un bar, The Place, che ha tutte le caratteristiche di un posto americano, anche il nome, ma che probabilmente è addirittura romano. Di fronte a loro una persona che, aprendo un’agenda, suggerisce l’azione da portare a termine per realizzare il proprio desiderio. E chi è questa persona? Un Angelo? Il Diavolo? Uno Psicologo? Un mostro? “Io dò da mangiare ai mostri”, ci dice Mastrandrea, davvero eccezionale in questa interpretazione. Tutti noi abbiamo dei desideri, è il desiderio a farci umani, a darci la vita. Ma tutto ciò che facciamo ha delle conseguenze su di noi e sugli altri.
Noi non vediamo quello che poi fanno questi personaggi, lo scopriamo dai loro racconti, dai loro affanni o dalle loro piccole conquiste. Svolgono il loro compito e tornano dal “mentore”, oppure ci tornano perché non ce l’hanno fatta, per chiedergli di cambiarlo o per arrabbiarsi con lui.
Non ci sono scene all’esterno, non ci sono fatti visti, non ci sono altri luoghi, tutto viene filtrato dagli occhi dei personaggi. L’unità di luogo è unica, ma il ritmo è incalzante, rallenta solo la sera, quando il personaggio con l’agenda rimane chiuso nel bar, da anni non dorme, e una Ferilli misteriosa e curiosa, lo interroga, lo scruta, lo stuzzica perché vuole salvarlo o sua volta sedurlo.
Un gioco di seduzioni, dove da padrona fa la nostra immaginazione, perché lo spettatore immagina, immagina. I dettagli sono la cosa più importante, l’unica in cui crede anche l’uomo con l’agenda.
E alla fine con quale giudizio usciamo? Possiamo davvero giudicare le azioni degli altri? Dove finisce il limite della morale e dove inizia quello della responsabilità? Può un dovere di padre essere più forte di un principio etico? Il film prova a rispondere o a farci pensare come rispondere.
Il cast non delude, Mastrandrea con le sue espressioni e la sua costante malinconia merita una menzione d’onore. Tutti ci rispecchiamo nei personaggi che sono sì ben definiti, ma comunque uomini universali con schemi mentali comuni.
Moralità e responsabilità: eterno conflitto che non trova una conciliazione, si apre a diverse possibilità, come il finale.
A volte può risultare un po’ statico, ma sicuramente mai scontato. Molto ambigui alcuni personaggi e alcune azioni scritte nell’agenda e suggerite, ma l’ambiguità ci fa pensare. Per alcuni versi è più teatrale che cinematografico questo film, in scena ci sono delle vere e proprie maschere con un conflitto da risolvere, e ognuno lo supererà secondo le leggi della propria coscienza.