[rating=4] Alice Howland (Julianne Moore) ha 50 anni ed è una docente di linguistica presso la Columbia University, è una professionista affermata e conosciuta in tutto il Paese per le sue pubblicazioni e il suo lavoro, sempre sostenuta da suo marito- il chimico Dott. John Howland (Alec Baldwin)- e tre figli: Anna (Kate Bosworth), Tom (Hunter Parrish) e Lydia (Kristen Stewart). Ad un certo punto, qualcosa comincia a cambiare, dapprima qualche dimenticanza ed in seguito veri e propri momenti di “vuoto” durante i quali non riconosce nemmeno il posto in cui si trova. Purtroppo la donna dovrà confrontarsi con un destino avverso: ad Alice viene infatti diagnosticata una rara forma presenile di Alzheimer, in stato già avanzato e oltretutto, di matrice genetica. Tutte le sue certezze crollano, diventando una donna fragile e indifesa, anche agli occhi della famiglia per la quale è sempre stata un vero e proprio pilastro. Nel film vedremo come Alice affronterà la malattia ed il progressivo decadimento delle sue facoltà cognitive.
La pellicola è l’adattamento cinematografico del romanzo “Perdersi”(Still Alice) scritto nel 2007 dalla neuroscienziata Lisa Genova e pubblicato in Italia da Edizioni Piemme.
Richard Glatzer e Wash Westmoreland dirigono una grande Julianne Moore, che riesce ad interpretare in maniera eccezionale non solo il personaggio e la sua malattia, ma anche i sentimenti e le emozioni che ne derivano; la disperazione che trapela da Alice, sembra trapelare direttamente dalla Moore.
La narrazione si basa in linea generale sul progressivo senso di smarrimento e desolazione della protagonista, e di conseguenza dei suoi familiari. Da notare l’alternanza dei rapporti familiari: mentre da subito possiamo vedere la solidità del legame di Alice con il marito e i due figli più grandi ed un legame contrastante con la figlia minore Lydia, con il progredire della malattia è ora la stessa Lydia ad essere il sostegno di Alice, consolidando ora più che mai il rapporto madre-figlia, mentre il resto della famiglia assume una tendenza ad allontanarsi emotivamente.
Caratteristici sono i decisi primi piani sulla Moore e le panoramiche sui luoghi, che vanno a restringersi, costituendo una sorta di gabbia per la protagonista, metafora ovviamente della malattia che diventa sempre più forte.
Lo spettatore non può non perdersi nella miriade di emozioni che esplodono da questo straziante racconto, divenendo parte di esso fino a sentirlo nel proprio essere.
La memoria è anche identità, è una necessità di identità poiché si basa sui nostri ricordi, e sono questi a renderci unici, a farci conoscere il nostro intimo e i luoghi che ci appartengono, i nostri cari e i nostri amici. Senza la memoria non rimane che un vuoto, emozionale e cognitivo, un vuoto appunto,“identitario”.