[rating=5] Sequenze frammentate, nel claustrofobico spazio di Stanza. Dal lucernario lo sguardo si apre su Cosmo. Per nascondersi c’è il sicuro abbraccio di Armadio. Jack e Joy procedono uniti, in una realtà minuta e parallela. Ormai da cinque anni. Madre e Figlio, emaciati e dai capelli lunghi, vivono con poco: del reciproco affetto, di fantasia e dei “regali della domenica” che “Old Nick” procura loro. Fino al giorno in cui Porta si apre sul mondo.
Intimo, drammatico e commovente, Room (2015, 4 nomination agli Oscar) di Lenny Abrahamson si distingue per l’originalità del soggetto, come della narrazione. Montaggio e qualità dell’immagine tipici del documentario. Forse per comunicare allo spettatore la realtà dei fatti di cronaca cui si ispira. Realtà, ahimè, che incombe ovunque, non solo in quell’angolo di Stati Uniti dov’è ambientato il film.
La partitura descrive un’altalena di emozioni, continua alternanza di forza e fragilità, felice immaginazione e doloroso-amaro disincanto, separazioni e riconciliazioni. Senza che mai si perda il tratto intimista che caratterizza la pellicola. Ben dosata anche la suspence; così come le performances degli interpreti, tra cui si distinguono il meritato Premio Oscar Brie Larson (la Madre Joy, Miglior Attrice Protagonista) e Jacob Tremblay (il Figlio Jack).
Ingredienti che rendono impossibile ogni forma di distacco: ansia, tenerezza e appagamento, sono garantiti. Catartici. È un umanesimo che accende di pathos lo sterile orrore della Cronaca: non più dati o notizie fugaci, lette con distrazione dal mezzo-busto di un TG; ma respiro di due anime infrante, che riconquistano a fatica, vacillando più e più volte, la loro libertà.
Trasposizione per il grande schermo di Stanza, letto, armadio, specchio, pluripremiato romanzo di Emma Donoghue (Candidata agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Non Originale), Room trae le sue origini dal Caso Fritzl. Nella cittadina austriaca di Amstetten, Elisabeth Fritzl ha vissuto prigioniera del padre per 24 anni. Chiusa in un bunker sotterraneo ha subito frequenti abusi sessuali, da cui sono nati sette figli. L’orrore della vita supera quello della finzione scenica, edulcorata da una trattazione onesta, ma discreta e delicata. A tratti ricordando La vita è bella di Roberto Benigni, dove la fantasia tutela l’infanzia dalla violenza degli adulti.
Se poi sia davvero così, o se non siano piuttosto gli infanti, con la loro innocenza, a salvare i fragili adulti dalla violenza che si usano reciprocamente, è tutto da scoprire. Room qualche suggerimento lo dà, candidamente e senza pretese. Il rammarico ultimo è ripensare a quanto l’intensità del film sfiori a malapena la superficie del problema. L’epidermide di un profondo dolore che ci fa dire, prendendo in prestito un efficace motto del Festival dei Popoli: #Realityismore. Spesso, anche e soprattutto nel Male.