Rappresentare un’icona mondiale, è compito arduo per il più talentuoso degli artisti. Figurarsi poi se l’artista in questione è un regista che ha fatto film buoni, ma non memorabili e se l’icona di cui sopra è Marilyn Monroe. Aggiungiamoci che il film, non-biopic, “Blonde“, è tratto da un romanzo dichiaratamente ispirato all’universo interiore della diva delle dive e non necessariamente a fatti accertati della sua vita reale. Già bastano tre premesse per una polemica esplosiva, se poi ci mettiamo pure che la pellicola distribuita su Netflix, non lesina scene di sesso e violenza senza freni e ci regala pure un Kennedy spregevole e a tratti ridicolo, ecco allora che cacciarsi fuori dall’intrico di sdegno e rifiuti concessi da buona parte della critica mondiale, diventa quasi impossibile.
Quasi perchè chi ha “studiato” un po’ la vita artistica e privata della “Blonde” e si è concesso una lettura non necessarimente pregiudizievole del testo omonimo di Joyce Carol Oates, riuscirebbe solo a fatica, almeno in teoria, a non rintracciare in questo prodotto la qualità e lo stile che in tanti, troppi, gli hanno negato. La vita di Marilyn è stata dopotutto già più volte oggetto di scritture e riscritture non sempre felicissime, questa di Andrew Dominik tuttavia ha come segnato uno spartiacque fra la visione della star patinata e “il corpo”. Il regista neozelandese ce la presenta in una forma più vittimistica che consapevole, di creatura bellissima, fatalmente schiava del suo fascino, immersa in un mondo hollywoodiano molto poco glam, trionfalmente patriarcale.
Quest’ultimo aspetto ha indignato i più, anche fra gli spettatori e non ultime le donne, di cui fioccano commenti negativi online. Osservando curiosamente le critiche, sembra emergere anche un rifiuto dell’idea che l’industria cinematografica fra gli anni quaranta e sessanta potesse essere così marcia, popolata da uomini potenti, pronti al mercimonio sessista. Cosa che peraltro esiste ancora, vedi Weinstein. Ma ancora di più fa riflettere il fatto che risulta accettabile l’idea di una donna fragilissima, ma fondamentalmente scema, o quantomeno in balia degli eventi e delle relazioni, piuttosto che quella di un’interprete, peraltro molto brava, che decideva consapevolmente di utilizzare il proprio sex appeal per raggiungere degli obiettivi.

Perchè in buona sintesi è questo quello che ha fatto Norma Jeane, specie all’inizio della sua carriera. Complici certo gioventù e inesperienza, non è irragionevole credere che si sia trovata in situazioni di molestie o abusi fisici veri e propri da parte di qualche produttore. Inoltre certe “attenzioni particolari” le aveva subite fin da ragazzina e dovette aver imparato con una certa fretta quale era l’unica cosa che una giovane poverissima e fondamentalmente senza famiglia come lei, aveva da “vendere”. Non piace che emerga questo di Marilyn e anche Dominik e Oates preferiscono insistere su una caduta più fatale che volontaria, per tutto il corso dell’esistenza dell’attrice che invece, a ben leggere le sue biografie, quella “caduta” nell’abisso delle perversioni, aveva imparato a gestirla molto bene. Meno quello delle dipendenze.
Il film alla fine regge il mito, l’icona, concede qualche inesatezza qui e lì sul suo privato, cede ad avvalorare pettegolezzi e scandali che qualcuno le ha cucito addosso senza conoscere la verità, ma in fondo ci parla della Marylin che tutti ci siamo immaginati. Quello che marca diversamente è l’aspetto più pruriginoso e sessuale, con scene esplicite, al limite del pornografico. Ma lei, Marylin, la diva col destino tracciato nelle M delle mani, è in fondo sempre la stessa, la bionda un po’ sciocca che lei stessa aveva sfruttato e che quando aveva iniziato a starle stretta aveva tentato in ogni modo di uccidere. Lo aveva fatto andando all’Actor Studio, sposando Miller, cercando con tutte le sue forze di uscire dallo stereotipo che pure le aveva regalato gloria, successo e denaro.
Alla fine a morire, due volte, è stata Norma Jeane Baker, che nel più criticato testo di Miller: “Dopo la caduta”, pone fine alla sua vita nelle vesti di Maggie. Una caduta letteraria in realtà per l’ex marito, che in fondo come molti altri prima di lui, l’avevano in qualche modo “usata”. E forse non è nemmeno un caso che sia stato proprio questo il lavoro meno apprezzato del drammaturgo statunitense, pare, secondo la sua biografa, perfino da Jaqueline Kennedy, la quale non aveva gradito la rappresentazione invero un po’ infame data alla protagonista, chiaramente ispirata alla Monroe.
In conclusione Blonde è un film bello, intenso, interessante, con una fotografia eccezionale, un’interprete straordinaria (Ana de Armas) ed è solo uno dei tanti mondi possibili che possiamo creare e raccontare sulla vita di questa donna che “aveva messo al mondo sè stessa”. Non è e non deve essere per forza reale, è un’immagine dentro lo specchio, una delle infinite letture che ciascuno di noi ha tratto guardando una foto di Marilyn. Questa è Blonde, secondo Andrew Dominik e in parte Joyce Carol Oates, la storia di una donna stupenda e triste, che da essere umano ferito e infelice piange osservando il suo riflesso dentro un camerino e poi d’improvviso, rinasce ancora e ancora, ridendo splendida e pronta per il suo pubblico. Come una fenice.
Una dei momenti più belli del film è proprio questo, capace di sintetizzare con una risata e un bacio a sè stessa, un attimo prima dolente, l’anima complessa di una creatura il cui mistero ci sfugge e ci sfuggirà sempre. Non è per questo dopotutto che è stata celebrata in tutto il globo e continua a esserlo? Chi si è scandalizzato per questa sua interpretazione cinematografica, per dirla con Pasolini, è banale e anche sempre male informato.