[rating=3] Da cammino interiore ed esclusivo, l’amore che tutti abbiamo provato e che tutti speriamo di provare e di vedere ricambiato, viene stavolta oggettivato nella mostra “Love”, allestita al Chiostro del Bramante di Roma per rendere disponibili al grande pubblico le interpretazioni che di esso hanno fornito grandi artisti del panorama contemporaneo come, tra gli altri, il celebre Andy Warhol.
L’allestimento è accattivante e volutamente artificioso, con moquette rosa e Cupidi sparsi a segnalare il percorso in una sorta di bazar della pacchianeria, traduzione tangibile di quel trasporto smielato che ci assale tutti durante i primi batticuori.
Le voci delle audioguide sono caratterizzate da diversi personaggi e ogni visitatore può scegliere da chi farsi accompagnare nel viaggio esplorativo tra le sale, in modo leggero e accattivante, per rendere più piacevole la visita e tradurre in maniera simpatica l’incontro con l’arte.
Non c’è inoltre l’abituale divieto di fotografare le opere in mostra, anzi, ovunque riecheggiano gli hastag con l’invito a condividere: la rivoluzione digitale che ha colpito l’amore, al Chiostro del Bramante si è calata nell’arte, spronando il visitatore a sentirsi “a casa”, padrone dello spazio, e a farsi egli stesso promotore dell’evento.
E’ un modo diverso di portare le opere in mostra e di coinvolgere il pubblico quello che incontriamo visitando la rassegna, ed è un modo piacevole che ci sorprende positivamente e ci fa sentire protagonisti di quello che viviamo.
Come appare dal suo contenuto e come afferma il curatore Danilo Eccher, questa rassegna non offre risposte ma si propone piuttosto come spunto per successivi interrogativi, siano essi quelli sull’eterno dualismo eros e thanatos (amore-morte), oppure quelli sul tradimento e sulla rabbia che proviamo in seguito a delusioni sentimentali, oppure sulla caducità della bellezza, permettendo, in sostanza, al visitatore, di trovare l’opera che meglio incarna la propria personalissima visione dell’amore.
In questo percorso di visita, quindi, ogni opera d’arte è una sfaccettatura diversa di un sentimento mai uguale e, in tale logica, anche le pareti partecipano invitando gli spettatori a lasciare un messaggio sui muri per raccontarsi a loro volta, perché sull’amore tutti possiamo dire qualcosa e non c’è nessuno che possa dirsi più esperto degli altri. La storia di ciascuno è a se stante e in ognuna c’è una scintilla di sacro e di arte.
Se le labbra con le sigarette accese realizzate da Tom Wesselman ci ricordano che le parole, i baci, le dichiarazioni, le promesse e addirittura le maledizioni, con il tempo diventano fumo portato via dal vento, le scritte al neon di Tracey Emin diventano, con il loro corsivo intimo e fluorescente, un distillato di amore e dolore, con frasi dirette ed asciutte che rievocano la passione e insieme il trauma della gelosia e del tradimento.
L’amore che supera le barriere della razza e si fa multiculturale è quello delle fotografie di Vanessa Beecroft che, nei suoi scatti, celebra la donna, l’amore materno e la famiglia moderna, mentre il video di Tracey Moffat ripercorre invece ogni tappa del ciclo amoroso, fino ai suoi estremi: la dolcezza, la passione, la gelosia, l’odio, la rabbia che sfocia, in alcuni casi, nell’ossessione e quindi nella violenza e nella morte.
Molto interessanti sono anche le opere di Mark Manders e di Francesco Vezzoli che si riagganciano all’ideale della bellezza classica. Mentre Manders, dopo averle create con la creta, le sfregia con il legno a richiamo della croce e a ricordo di un dolore inflitto o subito in nome della passione, Vezzoli invece mette in gara il presente con il passato e rilancia un ideale di bellezza imperituro, traduzione – in chiave classica – di un narcisismo singolare.
E’ sempre da uno spunto classico che nasce quella che, a mio gusto personale, è la più commovente delle opere in mostra: “Kiss”, realizzata da Marc Quinn. Si tratta di una scultura a tutto tondo che racconta, riecheggiando la vecchia statuaria greca o romana, l’abbraccio di due portatori di handicap realmente sposati nella vita reale.
Quinn, con quest’opera che commuove il pubblico ma che non è intrisa di retorica e pietismo, mette la monumentalità classica a servizio della normalità dell’amore, sottraendola alla perfezione, per restituirla all’imperfezione della vita reale.
A concludere il percorso di visita sono due installazioni: la prima che incontriamo è realizzata quella con i giganteschi fiori di Djuberg che ruotano sui loro steli mentre la musica invade la stanza e che possono assimilarsi ad una sorta di versione punk di Alice nel Paese delle Meraviglie, dove tutto è ingigantito come in un amore eccessivo e malato da cui si finisce per sfuggire.
La seconda è l’Infinity Mirrored Room, l’interessantissima installazione del giapponese Yayoi Kusama che, con una serie di zucche-lanterne disposte in una piccola stanza con pareti di specchi, riesce ad evocare – in modo caleidoscopico – l’amore per l’infinito che diviene metafora dell’amore infinito.
Una rassegna interessante, ben allestita, adatta ad un pubblico trasversale, anche ai più giovani, e che rimarrà impressa soprattutto per il rinnovato rapporto con lo spettatore.