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You are my destiny: Il rosso della violenza, il nero del dolore, la bianca purezza della morte

[rating=4] Una luce parte dal fondo della platea, taglia il buio come un rasoio, delinea delle parole su uno schermo: i sovratitoli traducono ciò che Angélica Liddell quasi bisbiglia in spagnolo, sua lingua madre, scandendo parole come “violenza”, “vendetta”, “morte”. L’appariscente gonna celeste è una delle citazioni esplicite alla Lucrezia di Shakespeare, che dopo lo stupro da parte di Sesto Tarquinio non può far altro che suicidarsi.

Il sipario del Teatro Storchi di Modena si apre completamente e il palco rosso, drammaticamente vuoto, delimitato da un alto muro con colonne, risulta subito opprimente. D’altra parte lo spettacolo You are my destiny (Lo stupro di Lucrezia), vincitore del Leone d’Argento per l’innovazione teatrale alla Biennale Teatro di Venezia 2013, non ha lo scopo di raccontare una storia, ma di farci vivere le emozioni, i desideri, le sofferenze e le rivincite di una donna che ha subito violenza.

Due donne immobili e tre uomini che cantano, la scena resta fissa per interi minuti, sembra infinita. “Speriamo non sia tutto così…” viene da pensare, ma semplicemente non ci siamo ancora abituati ai tempi dello spettacolo, non ci siamo sincronizzati con quei movimenti lenti, quei gesti carichi di simboli, quelle pause che servono a farci osservare in modo magnetico ogni particolare, a distoglierci dalla frenesia moderna, a sintonizzarci su molte emozioni contrastanti.

Perché due donne? Chi sono i tre uomini? Il teatro contemporaneo è bello anche per questo: non spiega ma ispira, non racconta ma suscita, ognuno vi può intendere una propria personale versione dei fatti. Dal letto-panca dove sono sedute le due donne passano ed entrano in scena dieci bambini, ognuno con un palloncino. Sono innocenti. Ognuno di essi prende un tamburo e inizia a colpirlo, la violenza si presenta già da piccoli, appena usciti dal grembo-letto materno? Fanno la loro comparsa dieci uomini che iniziano a loro volta a suonare i tamburi e il teatro rimbomba del frastuono provocato. Una delle donne li implora di smettere, li accusa, prova ad addolcirli, li ignora, le tenta tutte per far cessare quella immensa violenza, l’altra donna attende immobile.

I bambini salgono sulle spalle degli uomini, stanno crescendo, poi muoiono, non sono più bimbi, non sono più innocenti. “Ammazzate tutti i bambini per non avere uomini”, bisbiglia la donna.

Come si vede, l’analisi è lucida: l’uomo è malato e tramanda questo germe da una generazione all’altra, alla donna non resta che la disperazione e la vendetta. E infatti nella scena successiva gli uomini sono messi al muro, appoggiati in modo scomodo in una posizione che terranno per un tempo interminabile, mentre la donna, immobile e di spalle al pubblico, li fissa. L’altra si diverte a provocarli porgendo loro dell’uva ed ascoltandone i gemiti. Le due donne sono due facce della medesima medaglia, rappresentano una il corpo e l’altra l’anima di Lucrezia. Mentre il corpo li fissa, l’anima si avvicina agli uomini sofferenti e, ad alcuni di loro, lava i piedi e copre loro i volti, forse per un istante li sta perdonando? Ad un suo gesto, tutti gli uomini tranne uno puliscono per terra come schiavi e si flagellano. Allora la donna-corpo si spoglia e va da ognuno di loro, li tocca, li bacia e quasi subisce nuovamente il loro amore talvolta violento. L’unico uomo a restare in piedi esce di scena mesto. Spuntano anche dei fiori per farsi perdonare. Mentre l’uomo è già ritornato ai suoi istinti (uno di loro gioca a pallone), la donna-corpo si fustiga e la donna-anima ripudia l’umanità in tutte le sue forme, uomo e figlio, che rappresentano la violenza attuale e quella futura. “Non c’è gioia senza nebbia”, gli uomini escono di scena e il palco, vuoto ed enorme, rappresenta bene la solitudine, l’angoscia, la “nebbia” femminile. La donna-anima si perde, apre una ad una dieci birre per berne pochi sorsi, poi le versa sul palco, non si fida più di niente, assaggia qualcosa per poi lasciarlo andare, sta con gli uomini per poi mollarli.

You are my destiny (Lo stupro di Lucrezia) di Angélica Liddell

Nel funerale che segue, a morire è solo la donna-corpo, insieme all’uomo che prima non ha cercato di minimizzare la violenza, che non è come gli altri, che è pieno di compassione per la donna e che quindi muore con essa.

L’uomo può uccidere il corpo ma non l’anima della donna, anche se alla fine ad adornare il cadavere vengono disposti rami di albero, mentre i fiori sono proprio per l’anima, forse la vera morta è lei, in solitudine. La canzone che da il titolo allo spettacolo è semplicemente una connessione a quello che ha detto la Liddell all’inizio, la donna è condannata ad avere un uomo così, è il suo destino, appunto.

La Liddell è splendida, brava nel suo ruolo ma molto di più nella regia, nella posizione millimetrica delle luci e nella scelta cromatica di scenografia e costumi. La sua fisicità espressiva è seconda solo al suo acume nel pensare le scene, nel costruire simboli, nello sviscerare sensazioni e pulsioni, nell’immedesimarsi in una donna ferita e sola. Il resto degli attori che la circonda sono bravissimi, praticamente non si notano sbavature nella recitazione in uno spettacolo che tiene incollati alla visione e fa riflettere.

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