[rating=5] Il segreto della scrittura di Harold Pinter non si può spiegare razionalmente. Come un blues, lascia senza parole. Il drammaturgo inglese, premio Nobel scomparso nel 2008, è un autore presumibilmente difficile da trattare. Un dettaglio di troppo, un movimento in più, un’intenzione sbagliata ed è subito catastrofe. Ridicolizzare i suoi testi e renderli imbarazzanti è questione di un secondo; come ridere a un funerale. Serve il giusto equilibrio tra il sensato e l’insensato, tra l’assurdo e il plausibile.
Il ritorno a casa, per la regia di Peter Stein, è uno spettacolo che germoglia, nei terreni più fertili, a velocità crescente. Gli attori di questa versione si rivelano campioni di apnea, immergendosi nelle acque paludose di Pinter dove non solo sguazzano teneramente, ma non danno motivo per sentirsi a disagio, si divertono, e noi con loro, finché non finiscono per sbranarsi a vicenda.
Il ritorno a casa parte come una commediuola farsesca, con un padre e un figlio che si stuzzicano a vicenda in un appartamento vicino Londra, dove vivono il capo famiglia, i suoi due figli maschi e il fratello; poi esplode in tutta la sua banale violenza, per terminare con un’atmosfera sacra, una composizione umana che ricorda una plurima Pietà. Il personaggio Ruth è al centro della scena su una poltrona, gli uomini accoccolati intorno a lei, mentre il vecchio padre in ginocchio la supplica di baciarlo.
Gli interpreti rendono giustizia a un’opera ironicamente macabra senza mancare di rispetto al suo autore, facendo emergere ogni personaggio in una verità che non è mai la stessa. L’ambiguità pulsante e inconsistente, unita a pause che rafforzano lo straniamento e la malvagità comica, rendono questo spettacolo liberatorio, dotato di una luminosità strana che nessuno si aspetta.
La trama è solo un pretesto per tratteggiare lo scontro tra la logica e l’impulso bestiale. Lenny (straordinario Alessandro Averone) è un poco di buono che lavora in traffici illeciti: dietro la maschera da gangster fallito nasconde un’anima farneticante, che si interroga sulla divinità e sul significato filosofico dell’esistenza, in una duplicità che spiazza, fa sudare freddo. Suo padre Max (maestoso Paolo Graziosi) è un divertente pazzo, violento, da cui i figli non riescono a distaccarsi. Suo fratello Sam (l’efficace Elia Schilton) è un uomo timido, segretamente innamorato della moglie, da tempo defunta, di Max. Joey (il buffo Antonio Tintis) è un boxeur con le rotelle fuori posto, che sbava dietro ogni donna. Il fratello maggiore, Teddy (il bravo Andrea Nicolini), professore partito per l’America anni prima, è un intellettuale con un senso d’impotenza etichettato addosso. Poi c’è Ruth (concentrata e saliente Arianna Scommegna), sua moglie, madre di famiglia insoddisfatta che accetta di diventare l’oggetto sessuale del branco. Se i critici si accaniscono per vedere la perversione insita nelle figure maschili di Pinter, io dico che qui la perversione è democratica, vale per tutti i personaggi, non esistono vittime e tutti sono carnefici.
Una scenografia che condensa gli spazi e rende intima la storia, un’interpretazione carnale e spirituale al tempo stesso, splendide luci, una violenza seducente: questi sono solo alcuni degli aspetti che rendono questo spettacolo un umile e potente tentativo di scavare un testo che passa dall’ordinario all’universale con una bellezza emozionante. Qui si viaggia su frequenze rare.