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Ritter, Dene, Voss, la storia del fratello mancante

Il testo di Thomas Bernhard sviscerato nell'adattamento e regia di Pietro Babina a Bologna

[rating=4] Il sipario rosso di forma circolare avvolge il palcoscenico della sala Salmon dell’Arena del Sole di Bologna, e nasconde la scenografia moderna e ricercata al suo interno. A ritmo di musica, i personaggi dell’opera teatrale Ritter, Dene, Voss che Thomas Bernhard scrisse nel 1984, fanno capolino e si cimentano in pose teatrali plastiche, evidenziate dalle ottime luci del teatro. Questa parte, ben fatta e scenica, forse è la meno azzeccata dello spettacolo, perché svela i personaggi che conosceremo successivamente senza aggiungere nient’altro.

All’apertura, o meglio alla rotazione del sipario che fa quindi anche da sfondo, la scena è subito ben definita, essenziale: si percepisce a fior di pelle il nervosismo e l’attesa per l’arrivo del fratello Ludwig (Voss) (Leonardo Capuano), caldamente desiderato dalla sorella Dene (Renata Palminiello) ed osteggiato dall’altra sorella Ritter (Francesca Mazza). Le due sorelle sono prigioniere della loro stessa esistenza, vivono in una casa lussuosa garantita dal padre, il ricco industriale Worringer, ma la loro vita è solo saltuariamente illuminata dal teatro che frequentano in quanto proprietarie dello stabile, quindi non scritturate per il loro talento da qualche regista. Mentre Dene è succube del fratello, lo va frequentemente a trovare nel manicomio di Steinhof dove è rinchiuso, portandogli camicie e scarpe che vengono puntualmente regalate ai compagni di degenza, Ritter è l’unica che potrebbe uscire, viaggiare, ma non lo fa, “parli sempre di Roma e Parigi e non ci vai mai! Dopo due o tre giorni sei già di ritorno!” “a Roma abbiamo già visto tutto”, anch’essa imprigionata in questa rete invisibile di affetti che rende tutto insipido ed incolore, vincolata com’è a suo fratello.

Ritter, Dene, Voss | adattamento e regia di Pietro Babina

Più la narrazione va avanti, più risulta chiaro che il fratello, filosofo ed internato, è la tessera mancante delle loro miserabili vite, senza la quale non riescono a completarsi. L’una lo disprezza, l’altra trascrive tutte le sue opere filosofiche conservandone gelosamente i pensieri, ma nessuna può fare a meno di lui. Il testo ricostruisce benissimo lo spaccato di una famiglia alto-borghese della quale si potrebbe scrivere un trattato psicologico: il figlio minore è il prediletto del padre, il quale regala un teatro alle altre due figlie per riempire la loro vita, “i nostri genitori hanno investito tutto su di lui, e noi che eravamo?”; il figlio prima intraprende una relazione con la propria madre, poi si cimenta in filosofia rinunciando a seguire gli studi consigliati dai genitori, “un grande industriale con un grande filosofo”, schernisce Ritter. “Dopo la minestra una fetta di melone, penso che non sia sbagliato” si chiede Dene, ansiosa ed incerta su cosa potrebbe urtare o meno il fratello, mentre Ritter affonda il coltello nella piaga: “nostro fratello ci tiene in pugno”, “guardatevi dai deboli dato che sono loro i più forti”.

La sensazione di attesa che inizialmente si percepiva sulla scena tra le due attrici pervade anche noi, siamo curiosi di conoscere questa strana figura che regola le loro vite pur essendo lontano (ecco perché forse non andava presentato il fratello all’inizio?!). Al suo ingresso sono ancora più chiari i legami che fino ad ora erano soltanto intuibili: Ludwig viene coccolato ed imboccato da sua sorella Dene che si occupa soltanto dei suoi bisogni materiali, in quanto incapace di capire quelli più profondi, Ritter invece li intuisce ma, essendo essenzialmente simile a lui ma avendo trovato un diverso modo per esprimere il proprio malessere, non può che odiarlo, perché causa di esso. Ludwig dal canto suo le critica, le fa sentire imperfette e inadatte, “due artiste come sorelle? Sono più infelice che felice”, prima afferma che “ l’arte più alta è la pasticceria”, poi ingoia i suoi dolcetti preferiti, che ovviamente Dene gli ha preparato, continuando a parlare fino a sputarli, urla, quasi si strozza. La sua fame è di cose immateriali, di affetti e di comprensione, ma loro non possono saziarlo, per cui si è rintanato nei libri, nei saggi che però all’inizio, “come taverne”, saziano, poi diventano aridi di risposte e quasi “immangiabili”.

La sua filosofia e la sua logica sono malsane ma forse è la persona più normale fra i tre, malato ma almeno consapevole del proprio stato: “solo quando siamo malati siamo felici”. “Noi ci siamo date al teatro perché nostro fratello lo odiava”.

Un testo magnifico, profondo e colorato, ogni aspetto è puntualmente approfondito e non lasciato ad un livello superficiale. Bernhard ci coinvolge nella sua idea di abitudinarietà e grigiore della vita, una nauseante reiterazione di atti e sentimenti, un ripetitivo anello che ricorda il “cerchio dell’eterno ritorno” nietzschiano, qui materializzato anche nel sipario circolare. Il testo si ispira alla vita di Ludwig Wittgenstein, filosofo, ingegnere e logico austriaco, ma contiene anche tracce autobiografiche, come quelle raccontate da Ludwig nel manicomio, dato che la mamma di Bernhard lo rinchiuse in un istituto rieducativo per il suo temperamento irrequieto già all’età di 11 anni.

Ottimo il lavoro attoriale e registico, il bellissimo testo è stato sviscerato andando ad evidenziare anche i punti comici che rendono questo dramma meno pesante. La regia viene fuori anche in molti altri particolari scenici, come ad esempio la botola della cantina che, quando aperta, illumina da sotto, proiettando le sagome delle sorelle sul soffitto, forse un collegamento all’inconscio umano?

Uno spettacolo da vedere e da approfondire. Curiosità: il titolo dell’opera è stato trovato unendo i cognomi dei tre interpreti alla prima dello spettatolo al Burgtheater per la regia di Claus Peymann al Festival di Salisburgo del 1986.

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