Un re con una gallina nelle viscere: sembra l’inizio di un racconto assurdo, e invece è un barocco incubo contemporaneo, carico di simboli, che Emma Dante porta in scena con la sua firma inconfondibile. Re Chicchinella, tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, chiude la trilogia delle fiabe che la regista palermitana ha riscoperto e reinventato, dopo Pupo di zucchero e La scortecata. E lo fa con una storia crudele e bizzarra, che trasforma il corpo stesso del protagonista in una condanna, un meccanismo perfetto di allegoria e orrore.
La trama dello spettacolo, approdato al Teatro Metastasio di Prato, ha la spietata semplicità delle fiabe più crudeli: un re (Re Carlo III d’Angiò), durante una battuta di caccia, utilizza una gallina apparentemente morta per pulirsi dopo un bisogno corporale. L’animale, tutt’altro che defunto, si insinua nel suo corpo, portandolo a produrre uova d’oro ogni volta che si nutre. La corte non vede un uomo sofferente, ma un re nudo, una gallina dalle uova d’oro: finché depone, nessuno vuole salvarlo.

Emma Dante costruisce uno spettacolo in cui il grottesco si fonde con il tragico, la commedia con l’orrore, creando una rappresentazione che danza tra la farsa e il dramma più nero. I corpi degli attori si muovono e danzano come marionette opulente, e la scenografia, pur essenziale, amplifica la sensazione di un mondo dominato dalla logica della sopraffazione, dove il potere diventa malattia, il corpo un campo di battaglia, la famiglia un branco di sciacalli.
Il contrasto tra la fiaba e la sua crudezza è reso ancora più forte dalla messa in scena di Dante, che utilizza il linguaggio del teatro per trasfigurare il grottesco in un’esperienza sensoriale totalizzante. Il re, figura emblematica di un potere ormai svuotato di autorità, è vestito solo di una lunga gonna nera che gli scivola attorno al corpo nudo, lasciando scoperta la fragilità della sua condizione. Il costume, essenziale ed espressivo, trasforma il sovrano in una creatura spogliata di ogni dignità, ridotta a un involucro vulnerabile in balia di una corte famelica.
Esemplare è la scena dell’abbuffata, un banchetto smodato in cui i cortigiani, vestiti di abiti opulenti e sproporzionati, si ingozzano senza pudore, decisi a risvegliare l’appetito del re, ormai votato al digiuno nella speranza di liberarsi del parassita che lo divora dall’interno. Bocche che masticano con avidità, mani che brandiscono spaghetti come trofei, parole sputate insieme alle briciole che si spargono ovunque, trasformano il pasto in un’orgia di eccessi. Il cerimoniale si fa sequenza esilarante e vorticosa, una macchina scenica perfettamente oliata in cui il ritmo forsennato degli attori costruisce un quadro grottesco e irresistibile. Un momento di teatro puro, dove l’eccesso si fa spettacolo e la scena più iconica si trasforma in un rito paradossale e dissacrante. Ma il loro scopo è preciso: vogliono spingere il re a cedere, a produrre ancora, a donare un nuovo uovo d’oro. E alla fine ci riescono. Esausto, vinto dall’odore del cibo, il sovrano chiede un’oliva e una fetta biscottata. Non un pasto, ma un sacrificio. L’ultimo uovo, l’ultima condanna.
Il linguaggio scenico di Dante è come sempre spiazzante: utilizza la parola senza ingabbiarla, lasciandola fluire nel corpo degli attori, intrecciandola a movimenti coreografici e un’ironia tagliente che rende il tutto ancora più feroce.
Si muore danzando,
bevendo, mangiando;
con quella carogna
morire bisogna.
La regia di Emma Dante è, ancora una volta, un meccanismo teatrale perfetto, capace di fondere il grottesco con il lirismo in una messa in scena di grande potenza visiva e fisica, accompagnata nei momenti salienti da una suggestiva scelta musicale (Passacaglia della vita (Bisogna morire) di Stefano Landi e Lascia ch’io pianga di Georg Friedrich Händel). Gli attori si muovono come ingranaggi di una macchina scenica implacabile, corpi e voci che costruiscono un ritmo suggestivo e feroce. Tra tutti, spicca l’interpretazione di Carmine Maringola, un sovrano spogliato di ogni autorità, un corpo vulnerabile che si contorce tra sofferenza e rassegnazione, restituendo con precisione la parabola tragica di un uomo ridotto a involucro, svuotato dalla bramosia altrui, ormai solo mero strumento di produzione.
In “Re Chicchinella”, Emma Dante riesce a trasformare una fiaba antica in una riflessione contemporanea sulla natura umana, utilizzando il teatro come specchio deformante che riflette le nostre ombre più nascoste. Un cunto che attraversa i secoli e ci riguarda tutti: perché c’è sempre qualcuno pronto a nutrirsi della sofferenza altrui.