Comincia, Ragazze sole con qualche esperienza – in scena in questi giorni al Teatro San Ferdinando qui a Napoli, per l’accorta regia di Francesco Saponaro – a luci ancora accese in sala, con la voce di Grand Hotel che stenta a farsi sentire, canticchiando una canzonetta in voga negli anni ottanta, gareggiando con il chiacchiericcio del pubblico inavvertito che continua, zittito solo alla fine da qualcuno: in scena un oscuro velario permette, grazie a un lento e progressivo gioco di tenui e sapienti luci, d’intravedere, al di là di quello, un interno d’appartamento ancora indefinito nei suoi particolari ma che indovini essere un grande salotto con tanto di divano rococò, che dà su altri ambienti grazie anche a un gran varco praticabile al culmine di una breve scalinata; sul davanti, verso la platea, un prolungamento del palcoscenico, aggettante verso te che sei seduto sulla tua poltroncina rossa, ha il dichiarato scopo di rompere la quarta parete, di rendere te, proprio te, complice e partecipe dei fatti e dei misfatti: si siedono lì, prima che tutto cominci, praticamente di fronte a te, i due travestiti Bolero e Grand Hotel (rispettivamente Veronica Mazza e Lara Sansone in stato di grazia), quasi volessero farti partecipare al loro colorito e variegato ciarlare, voci dell’ancestrale ventre della città, dalle espressioni buie come il tempo ignoto che li ha un giorno generate, che il genio di Enzo Moscato sapientemente mescola a riesumazioni d’un passato più prossimo, che pure tu hai vissuto, riferimenti a volti e situazioni e persone che popolarono gli anni ottanta del secolo breve in cui fu scritto questo testo – Gabriella Farinon, Vermicino, Virna Lisi… – contaminazioni fatte del linguaggio falsopoetico da fotoromanzi che hanno sapore di profanazione e disgregazione ma che, pure, possiedono il potere inopinato e inatteso di riportarti alla mente sapori e odori che pensavi ormai smarriti, e poi, poi, espressioni che non diresti, che non penseresti mai ritrovare qui, sorprendenti come lo stupore che ti prende di fronte al manifestarsi geniale d’un idiot savant, brandelli di cultura forse raffazzonata sulle pagine della Settimana Enigmistica che di sicuro – più tardi ne avrai la prova – vien letta e consumata in quella casa, estremo sminuzzarsi d’un’erudizione disegualmente non formale e un po’ fatua.
Siedono lì, i due travestiti, sulle loro seggiole in paglia di Vienna, accanto al tavolino a tre gambe delle divinazioni, un po’ démodé tutto rivestito com’è di finto merletto lungo fino a terra: l’idromanzia, eseguita dall’una “un po’ janara”, l’esito ambiguo, profetando dapprima segnali inequivoci di morte e in seguito d’ineffabile felicità, non è che un degli elementi di questa pièce dove tutto sembra esser qualcosa e poi si rivela per il suo opposto e contrario, per poi ritrasformarsi di nuovo e ricominciare; lo stesso gioco registico accentua questa caratteristica, dove tutto allude al suo contrario, in un inesausto riflesso di specchi, fin dalla decisione di far recitare nella parte dei due travestiti due attrici: se pur questa non è certo novità, tuttavia in questo lavoro acquista il sapore di una ulteriore accentuazione dell’ambiguità che fortemente la caratterizza, ed espressione di un godibilissimo – e raffinatissimo – gioco teatrale.
Così, all’aprirsi finalmente del sipario, la casa non è solo il polveroso tugurio dove s’affollano e s’affastellano mobili dal glorioso passato, dal decaduto presente e dall’incerto futuro, non è solo il loculo per ancor viventi che richiama l’alveare umano de La città involontaria della Ortese, ma anche spazio che il terremoto dell’ottanta ha scavato e insieme devastato, messo a nudo e sgretolato, scoperchiato come si fa quando con la pietra si disseppellisce il verminaio e si ha voglia subito di rimetterla a posto, per chiudere, occultare, restituire il caos al precario e incerto equilibrio che c’era “prima”. Muro sgretolato e incerto, in parte (ri)tappezzato dai giornali dell’epoca – Il Mattino del 26 novembre 1980, quello del “fate presto” a titoli cubitali, coperto parzialmente da una coeva copertina di Bolero film – si apre però in un vano, una porta che diresti aperta alla luce e all’aria libera, via d’uscita verso un diverso mondo e destino, ma che invece non è che l’accesso all’ingresso dell’appartamento, che Cicala e Scialò (Carmine Paternoster e Salvatore Striano) barricheranno, subito dopo essere entrati in casa, per impedire l’entrata agli uomini di mammà, intenzionati a vendicare l’infamità grazie alla quale i due sono usciti anzitempo di galera.
Sulla destra una toeletta da trucco si sforza di riflettere la realtà meglio di come possa farlo l’ambiguità continua di questo mondo e degli eventi, pur ricordando(mi) l’analogo mobiletto che, nella stessa identica posizione, orna la scena de Le serve di Genet, obbligandomi, almeno mentalmente, ad un richiamo sottile che rimanda all’illusione teatrale, al travestimento continuo con cui la realtà si manifesta, alla potenza con cui l’esigenza ricrea il mondo, per cui serve generano padrone e travestiti generano sbandati, nello stesso ininterrotto fluire e (ri)fluire circolare del tempo. Completa la scena un pesante tendaggio sulla sinistra, che nasconde, lo vediamo a tempo debito, un cumulo inusitato di calcinacci e detriti su cui trionfante s’attesta un water, ironica scostante rappresentazione ulteriore del degrado e dell’insulso groviglio di contraddizioni e contrastanti spinte.
Così, tra rovesciamenti continui di senso, disvelamenti e improvvisi mutarsi di fronte, a sorprendenti per quanto comprensibili passaggi da vittime a carnefici e viceversa – non son che facce diverse della stessa medaglia – passando anche attraverso un momento d’inevitabile violenza, l’anancasmo della nevrotica situazione porta inevitabilmente al forzato ripetersi delle vicende, la coazione a ripetere forza le situazioni entro i risaputi binari d’una follia controllata e lucida, infine t’avvedi che quella realtà così rappresentata, quei riferimenti che pure in un primo momento sarebbero potuti sembrar datati perché inevitabilmente legati ad un mondo ormai morto e sepolto, assurgono improvvisamente a universalità, al di là e al di sopra della contingenza delle forme in cui essi si esprimono necessariamente, giungendo intatti, nel loro profondo significato, intatti e perfetti alla nostra dolorosa contemporaneità.