Se mai vi fosse capitato di vedere, qualche anno fa, quand’erano in gran moda spettacoli del genere, un digiunatore nella sua gabbia (così racconta Franz Kafka nell’ultimo racconto della sua vita, Un digiunatore, appunto), avreste potuto assistere, chi sa, ad uno spettacolo unico, tra ali di folla plaudente, bambini affascinati, donne adoranti. Così, ospita il Teatro Bellini di Napoli questo grande evento, un lavoro del lituano Eimuntas Nekrošius, uno dei maggiori registi viventi, che conserva di Kafka l’ironia sottile e la malinconia sfuggente, acquistando, nell’interpretazione della messa in scena, una valenza perfino autobiografica. E allora, letto il racconto, ti siedi in platea e immagini, come uno dei tanti protagonisti dello scrittore di Praga, di entrare nel mondo suo e di vivere una situazione tra il sogno e la realtà, forzatura, anzi, fino alla distorsione, della realtà, che porta invece alla verità, a quella nascosta dietro la desolata apparenza delle cose. Immagini dunque il tuo digiunatore, magro, della macilenza diafana e terribile che può assumere un corpo umano dopo quaranta giorni di digiuno; immagini la gabbia e la paglia, immagini i bambini che vengono a vederlo, le torce accese la sera “perché facca più effetto”. Invece. Ti capita d’entrare in teatro e veder con sorpresa il digiunatore esser donna, accentuando in tal modo la tenerezza che già, in verità, traspariva dalle pagine scritte.
Bionda, vestita di velluto nero, Viktorija Kuodyté vive la minuta allegria dei suoi gesti, che a tratti sconfinano nell’arte antica del mimo, coniugata con la forza nascosta e mistificata del personaggio, che tuttavia traspare dall’autorevolezza e dalla calma dello sguardo, condividendo l’impresa della messa in scena della prosa, così falsamente piana e semplice dell’Autore, con alcuni compagni d’avventura – compagni di vita – (ri)creando una completa rappresentazione del mondo e delle cose; nel mentre le parole – le esatte parole del testo – sgorgano dalla voce degli attori (Vaidas Vilius, Vygandas Vadeiša e Genadij Virkovskij) va in scena la loro incarnazione, nella gestualità degli stessi: ti accorgi tuttavia, ben presto, che il senso di ciò che vedi travalica, il più delle volte, la parola detta, volendo, con molta probabilità, indicare altro. Meglio: Parola e Gesto s’inseguono, si contaminano, si correggono reciprocamente, come fosse di volta in volta falsamente percepito un leggero asincrono, una sfasatura, un’incrinatura dello spaziotempo che permette alla prosa di crescere in poesia, in un processo che conserva in sé, nella profondità del pensiero del regista, l’autentica chiave interpretativa, restituendone alla fine solo l’eco, l’ombra, l’astratto disegno di ciò che era idea e ispirazione.
S’inseguono così le immagini, dalle lavagne su cui scrivere gl’improvvisati menu fatti di niente: I, digiuno; II, digiuno; III, digiuno, al sorridente invito de la cena è servita con cui s’apre la pièce, che magari muoverebbe al sorriso se non fosse intervallata alla lezioncina sull’anatomia e fisiologia del tratto gastroenterico, con tanto di schemini e disegnini e modellini di varie tipologie di stomaci, intersecandone le curve, la maggiore e la minore, con immaginari boli che di lì vengon spinti a forza verso il duodeno e oltre. Di lì riprende poi l’accurata descrizione kafkiana del miglior periodo del nostro protagonista, da tutti osannato e ammirato per i suoi quaranta consecutivi giorni di digiuno; e tuttavia manca la gabbia, così minutamente descritta dall’Autore e per nulla accennata nei gesti e negli oggetti di scena, forse perché tutto il mondo, in questo mondo, è gabbia. O forse perché è il digiuno stesso, ad esser gabbia e insieme vanto e gloria del digiunatore, che ben può riposare sui molti allori vinti in una lunga vita (pensava il regista anche un po’ a se stesso, chi sa), prima d’impacchettare il tutto e spedirlo al monte di pietà.
T’accorgi allora di come questa storia, come un apologo evangelico, altro non sia che metafora della vita, di quella dell’Autore, certo, e del regista, come no, ma pure della tua, e di chiunque altro, costretto, come il protagonista, all’arte eccezionale del vivere. Seguono, alla fine, i tempi duri, il venir meno della gloria, la vecchiaia e la rumorosa macchina del circo – e vedendo il digiunatore con una corda intorno alla vita venir guidato da altri non ti riesce di non pensare al quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Suggestioni, trasparenze e opacità, poesia allo stato puro, screziati abbandoni e inusitate durezze, che pure, insieme si fanno musica, in un accennato quanto immaginario flauto, nelle armoniche a bocca, nel canto che fluisce come dalle bocche di bambini, nel suono vellutato (come la veste nera del digiunatore) del violoncello che accompagna, fino alla morte, il protagonista, e alla pantera che lo sostituirà nella gabbia, così felicemente e stolidamente piena di gioia di vivere da soggiogare gli spettatori con la forza stessa che emana dalle fauci.