Con l’inaugurazione della stagione “sperimentale” del Nuovo Teatro Ateneo che proprio in questi giorni apre pure una posizione per il suo futuro direttore (avremo delle belle sorprese o nomi scontatissimi? Chissà…) fremevo di “fruire”, è il caso di dire, di uno spettacolo nel bell’alveo scenico della prima università romana.
L’occasione me la offrì Andrea Cosentino. Drammaturgo, attore e regista ex premio Ubu di cui, mi pento e mi dolgo, non aver mai “fruito”. E allora recupero con Not here not now in scena il 21 novembre in data secca. Scopro così finalmente dal vivo la genialità di questo autore e interprete che appunto al grido romano di “fruiteme”, si offre nudo e crudo (quasi) alla platea dell’ateneo teatrale.
Not here not now è ben più che uno spettacolo teatrale o, come direbbe lo stesso Cosentino, una “performance”. È anch’esso un po’ come la nuova stagione del teatro che lo ospita, un esperimento scenico. Anche qui come in altri suoi spettacoli, che scopro da interviste e video online, il monito è lo stesso, una piccola proficua regola ereditata da Gianni Rodari: accoppiare due elementi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro e vedere che storia ne esce fuori. Eccoli allora i due elementi dal matrimonio improbabile: Cosentino e Marina Abramovich, la regina delle “Peffooomans”, come direbbe la Raffaeli, che pure ce ne ha regalato una strepitosa parodia.

Quello che ne risulta sul palcoscenico è un apparente pastiche meta-linguistico-teatrale in realtà logicissimo, che scardina con acume e ironia tutta l’autoreferenzialità a volte francamente incomprensibile del mondo dell’arte. Il tutto a ritmo di parola frenetico, talmente veloce da poter romanamente affermare che Cosentino a Mentana “je spiccia casa”.
Una vecchia battuta riesumata da un film o una serie di cui non ricordo il titolo recitava: “se non la capisci, è arte”. Cosentino gioca col pubblico proprio su questo efficacissimo aforisma, che presta il fianco alla presunta ignoranza di chi, di fronte a certe espressioni artistiche almeno tituba, come il buon Totò. Altro genio della parodia linguistica i cui “frizzi e lazzi” emergono qui e lì, ma pure coll’abito di Petrolini e la mimica di Jerry Lewis. Cosentino prende quindi di mira l’arte contemporanea che rasenta il filo della cialtroneria, talvolta cadendo nel baratro dell’egoriferito.
D’altra parte viviamo in una strana epoca dove si paga una banana milioni di euro. Una banana peraltro che suo malgrado sfugge alla tanto deprecata, presunta, dovuta, rifiutata o esasperata riproducibilità dell’opera d’arte. Giacchè a ogni nuova esposizione del Comedian viene sostituita. Stavolta chissà forse di nuovo mangiata, fagocitata (e poi… No questo non lo scrivo) nel trionfo dell’idea di deperibilità delle espressioni artistiche contemporanee. Cosentino dal canto suo riprende piuttosto il tema più terrigno del loro prezzo, snobbato, eluso, perfino mai pronunciato… Che volgarità! Con riflessioni e aneddoti anche personali che ci riportano dall’astrazione dell’arte concettuale alla vita di tutti i giorni.
È forse proprio in questa condivisibile umanità dove trovano spazio ricordi della nonna, della madre che lo imboccava da piccolo, impersonando bizzarri accoppiamenti fra bestie e comari, la vera forza della presenza scenica di Cosentino. Con lui ridere è in primis una boccata di respiro da un fiume in corsa di parole, ma poi è anche godibilissimo esercizio intellettuale in cui in fondo ci piace riconoscerci come pubblico “colto”. Nessuna battuta è scontata o ridicola, tutto è centellinato con intelligenza e capacità affabulatoria.
Siamo con lui, come lui, quando ci parla della sua partecipazione al PAC di Milano al cosiddetto “metodo Abramovich”, in soldoni l’adesione a una performance della Marinona, di cui poi improvvisa pure un esilarante parallelismo biografico. Da lì parte poi un viaggio comico che ha come bersaglio proprio l’artista concettuale serba. Cosentino ne veste i panni con un naso posticcio e una lunga parrucca intrecciata, proponendo in video la sua personale interpretazione delle più famose performance della Abramovich. Non ultima la più feroce e controversa: Rhythm 0.
Cosentino non tenta di rivisitarne la famosa massima “In theatre a knife is fake and the blood is ketchup. In performance art a knife is a knife and ketchup is blood” anzi la concretizza, nell’ultimo irresistibile quadro finale, in cui ci regala la sua personalissima opera d’arte. Ovviamente con un coltello finto e manco a dirlo getti di ketchup, usato come inchiostro a sugellare un trigramma bambinesco espressione di malessere. Sì ho fatto ‘sto panegirico per non scriverla, la parola in questione. Andate a vedervi lo spettacolo. Che dire un vero mostro da palco, da scoprire e riscoprire prenendoci gioco, prima di tutto, di noi stessi.