Home Teatro Ne ” La Classe” si va a lezione di emozioni

Ne ” La Classe” si va a lezione di emozioni

In scena al Teatro Marconi uno spettacolo che fa riflettere sul tema della tolleranza e dell'accoglienza

La Classe“, il testo scritto da Vincenzo Manna, con la regia di Giuseppe Marini, ha preso l’avvio da una ricerca basata su circa 2.000 interviste  a giovani tra i 16 e i 19 anni e su incontri-lezioni  in alcuni istituti scolastici del territorio laziale sul tema dell’accoglienza, e dà vita ad uno spettacolo che è il risultato di un progetto nato dalla sinergia di soggetti operanti nel settore della ricerca (Technè), della formazione  Phidia), della psichiatria sociale (SIRP) e della produzione di spettacoli dal vivo (Società per Attori)

La vicenda si svolge in una non ben identificata cittadina europea  dove disagio, criminalità e conflitti sociali sono all’ ordine del giorno, accompagnati da un decadimento pressoché inarrestabile. Appena fuori dalla città, c’è lo “Zoo”, uno dei campi profughi più vasti (circa 10.000 persone, uomini e donne richiedenti asilo) che ha ulteriormente deteriorato un tessuto sociale già sull’orlo del collasso e attorno al quale è stato  costruito  un  muro per evitare la fuga dei rifugiati; a pochi chilometri dallo “Zoo”, c’è una scuola superiore specializzata in corsi professionali che avviano al lavoro, un istituto che è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali.  Qui Albert, un giovane professore precario alla sua prima esperienza, tiene un corso di recupero pomeridiano per sei studenti sospesi per motivi disciplinari; fin da subito egli abbandona la didattica tradizionale  e, tra enormi difficoltà e la diffidenza di Preside, coinvolge la classe in un progetto sperimentale  e propone agli studenti di partecipare ad un concorso, un bando europeo per le scuole superiori che ha per tema “I giovani e gli adolescenti vittime dell’Olocausto”.

Andrea Paolotti e Carmine Fabbricatore

I ragazzi ovviamente non sembrano affatto motivati, ma il professore  mostra loro un documento riguardante un rifugiato che prima della fuga dal paese d’origine aveva il compito di catalogare morti e perseguitati dal regime per il quale lavorava, regime che, grazie all’ appoggio di alcune nazioni estere, è impegnato in una sanguinosa guerra civile che sta decimando intere città. È  proprio il conflitto da cui la maggior parte dei rifugiati dello Zoo sta scappando… Ed è quello l’Olocausto di cui gli studenti si dovranno occupare. I ragazzi, sempre pronti a contestare e ribellarsi, guidati da lui cominciano ad interessarsi al concorso e da quel momento cambieranno molte cose.

Quello che fa il professore va ben oltre il permettere ai ragazzi di vincere un premio: intravedendo nella loro rabbia una possibilità di comunicazione, Albert riesce a far breccia nel loro disagio e nella loro frustrazione, conquistando la fiducia della maggior parte della classe, ed apre loro una via verso la ricerca ed il rifiuto di ogni immobilismo esistenziale; grazie a lui, comprendono che sono anch’essi figli e nipoti di adulti che hanno una storia, fatta di felicità, ma anche di tragedie e che, fintanto che ne ignoreranno le motivazioni, vivranno nella sgradevole inutilità e leggerezza della bolla di sapone. Scoprono, allora, che non possono vivere unicamente nel pregiudizio e nell’immobilismo.

Andrea Paolotti è un convincente Albert (forse a tratti un po’ dimesso, ma la grinta sul palco dei ragazzi è davvero tanta), riesce a rendere i suoi studenti  consapevoli e a insegnargli a superare i pregiudizi, al di fuori di ogni polemica, e non solo questo (l’odio e il razzismo sono sempre dietro l’angolo!), la sua è un’autorità bonaria che invita al rispetto reciproco e mostra loro che il suo mestiere non consiste nel punirli o sanzionarli.

Tito Vittori, è un  Preside autorevole, è la burocrazia fatta persona, per lui infatti il corso non avrà nessuna rilevanza didattica, servirà solamente a far recuperare crediti agli studenti che, nell’interesse della scuola, devono diplomarsi (ah, il famoso pezzo di carta!), ma quanto si sbaglierà.

Valentina Carli

Ludovica Modugno, è la rifugiata che ha perso la sua identità, è solo un numero in un mare infinito di dolore, e dà voce alla sofferenza e alla disperazione che sta vivendo, ma attraverso il suo viaggio nella memoria, farà capire  ai ragazzi  che qualsiasi “storia” che essi considerano troppo lontana o una provocazione ideologica, in realtà, li riguarda ed è un monito a dare un senso ed un valore alla loro vita.

Bravissimi anche  i giovani attori e perfetti nella loro interpretazione: Vasile (Edoardo Frullini) è il più ribelle, a tratti simpatico, alla fine lascia intravedere uno spiraglio aperto alla sua redenzione, Nicolas (Carmine Fabbricatore) è il più duro e deciso, pieno di odio e di rabbia, senza mezze misure, probabilmente  (e praticamente) irrecuperabile, Talib (Haroun Fall) è il più saggio, valuta ogni alternativa, riflessivo e meno propenso alla violenza,  Arianna (Valentina Carli) è una  creatura fragile e tormentata (certo) da un qualcosa di inconfessabile che le provoca una tangibile sofferenza, Petra (Giulia Paoletti) si mostra intelligente e sempre contenuta, giudiziosa e,  forse, la più in accordo con il mondo e con la vita, Maisa (Cecilia D’Amico) fa tenerezza e fa sorridere per i suoi comportamenti, è piena di ansie e paure che non riesce a gestire e da cui viene quasi soffocata.

Bella la scena (rimane la stessa per tutto lo spettacolo) di Alessandro Chiti che propone una classe anonima e polverosa, non ci sono strumentazioni tecnologiche, ma solo vecchi banchi, una lavagna ed un televisore obsoleto e tanti fogli sparsi a terra, dove non si ha voglia di imparare e dalla finestra si vede un muro che li separa, o meglio protegge, dai rifugiati. Funzionali anche le musiche di Paolo Coletta, i costumi di Laura Fantauzzo e il disegno luci di Saverio Alberto De Las Monjias.

Lo spettacolo è indubbiamente forte e rabbioso, ecco, quello che colpisce è proprio la rabbia di questi ragazzi difficili, ma straordinari, ci scuote, ci spiazza per le loro reazioni violente ed inaspettate e ci chiama in causa in quanto adulti (genitori, insegnanti, istituzioni) troppo spesso sordi ai loro bisogni e ancor più a quelli delle nuove generazioni multietniche e, per certi versi, ci provoca interrogandoci sulle nostre responsabilità.

L’insegnante crede nei suoi ragazzi “cattivi” e dà loro modo di fare un viaggio nella memoria, ma anche di confrontarsi, grazie ad un lavoro di gruppo, con le loro diverse estrazioni. In fondo quello che fa Albert è proprio far emergere la specificità di ogni ragazzo, senza considerare tutti come un’unica classe problematica.

La classe” colpisce per la sua valenza pedagogica e umana, perché si regge su un docente che sa anche ascoltare i suoi ragazzi e, malgrado tutto quello che si racconta sullo svilimento della professione dell’insegnante, dimostra che sono persone che hanno il potere di cambiare la vita a coloro cui si rivolgono, in meglio o in peggio, sono coloro i quali offrono ai ragazzi la possibilità di costruirsi il loro futuro e resteranno un riferimento nell’intero corso della loro esistenza. Insomma, piacerà agli insegnanti, ma anche agli studenti. E non solo a loro.

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