
[rating=3] Una cucina di una casa squallida, un uomo immerso nel grigiore, nella triste quotidianità, riceve una lettera. Era un rappresentante di vini, un uomo che amava il suo lavoro e la sua famiglia, una persona normale con una vita normale. Ora ha perso tutto per colpa della persona che gli scrive quella lettera, un malvivente che ha sparato alla sua famiglia per sbaglio durante una rapina e, per questo, è stato arrestato. Come può reagire alla violenta immensità della morte che gli strappa via dalle braccia i suoi amori in modo così brutale? E infatti non reagisce, rimane per quindici anni a pensare a cosa avrebbe potuto fare insieme a loro, a ricordare e “classificare gli istanti del trapasso”, ad immaginarsi sua moglie seduta al tavolo accanto a lui, resta bloccato in un limbo che lo corrode dall’interno. Per gli altri diventa “quello a cui hanno ammazzato moglie e figlio”, spingendolo all’isolamento, cambia lavoro nel tentativo di avere il minor rapporto possibile con la gente, anche perché ha perduto “il senso del gusto” per il suo amato vino, ormai sostituito dall’odore “dolciastro dell’obitorio”.
Il testo è bellissimo, racconta la disperazione di un uomo che ha perso tutto e non può far altro che nutrire rancore per l’assassino. E restare inerme, come quando una giornalista al processo gli chiede: “e ora cosa farà?”, andando a toccare una ferita ancora aperta. E’ evidente l’intenso lavoro dell’autore per essere più aderente alla verità possibile, avvalendosi di numerose interviste con i parenti delle vittime raccolte in occasione di processi di cronaca.
Giulio Scarpati, l’interprete di questo personaggio, non è colpito in pieno da queste contorsioni, da questa “brace sotto la cenere”, recita in modo manieristico, bello da vedere ma non ci mette il cuore. Questo personaggio non gli è entrato sottopelle fino a scuotere ogni suo dito, ogni suo capello, ogni sua ruga, e questo è un peccato.
Sull’altra faccia della medaglia abbiamo il carnefice, che giace in prigione da quindici anni e a cui viene diagnosticato un tumore. E l’autore, Massimo Carlotto, sa bene quello che scrive, infatti fu condannato per omicidio, si ammalò in carcere e, sempre definitosi innocente ottenne, dopo 16 anni fra galera e latitanza, la grazia dall’allora Presidente Oscar Luigi Scalfaro. Le giornate del prigioniero sono scandite dai ritmi carcerari, non è rassegnato, medita su cosa farà quando uscirà, immagina i posti che vedrà, il cancro gli fa paura ma rappresenta anche la malattia a cui può aggrapparsi per chiedere la grazia, o per uscire con la sospensione della pena. Fa il duro, ma i rimorsi per quello che ha fatto lo lacerano, non lo fanno dormire la notte, chiede perdono nei suoi sogni, inutilmente, e cerca di fregare la galera, cioè prova a non pensare. Claudio Casadio rende bene la schiettezza del prigioniero, i sogni ad occhi aperti per non impazzire, la vocina della sua coscienza che mima con la mano, gli scatti a bussare alla porta per far vedere che c’è ancora: lui “la galera la sa fare”, dirà, come se stare lì rinchiuso fosse quasi un lavoro. Si percepisce il dolore per aver sparato ad una donna e a un bambino di otto anni, ma anche la quotidianità e lo scorrere del tempo che pian piano ricoprono la ferita. Tutto è successo in una frazione di secondo, e durante quel breve attimo ci sono stati due morti ammazzati per terra e due morti rimasti in piedi, e lui è uno di quelli. Sono entrambi circondati dall’oscurità della morte, che non li ha ancora in pugno ma li fa vivere in un’esistenza tetra.
Mentre il carnefice chiede nella lettera il perdono della vittima, al solo scopo di ottenere maggiori possibilità nella richiesta della grazia, il calzolaio, che non lo perdonerà mai, acconsente soltanto per avere la possibilità di vendicarsi. Niente potrà restituirgli i quindici anni di disperazione che ha vissuto, ma ora ha uno scopo per esistere. Una volta appagato il desiderio di vendetta riesce finalmente a bere di nuovo il suo amato vino e ad uscire dall’oscurità che l’ha attanagliato per così tanto tempo. L’ex galeotto invece deve rinunciare ai suoi sogni e rimanere confinato nell’ombra, in un’esistenza che non sente sua, fino all’esecuzione della condanna che nasconde nel suo corpo. Il testo, tratto dall’omonimo libro ma riadattato dallo stesso autore appositamente per questo spettacolo, scava nell’umanità dei due malcapitati, va in profondità nei loro stati d’animo, senza dare ricette o schierarsi per l’uno o per l’altro ma limitandosi ad analizzare le emozioni e i desideri, le angosce e le ferite. I due personaggi sono due facce della medesima medaglia, che è l’autore stesso dato che è stato sia vittima innocente della giustizia sia carcerato per molti anni. Ovviamente il tema della giustizia viene fuori con prepotenza, con i racconti degli interminabili processi, l’incedere lento delle udienze, e il vuoto che resta nella pancia e nelle budella della vittima anche in caso di condanna, anche in caso di vittoria. E l’unico modo per risollevarsi è essere artefici della propria giustizia: “il sottoscritto rappresenta la legge!” dirà il calzolaio, mettendo in pratica la sua vendetta. Forse l’unica pecca è proprio la troppo sbrigativa trasformazione della vittima in carnefice e subito dopo nella persona “ritrovata”, che lascia il dubbio di una superficialità non respirata prima nello spettacolo.
Particolare l’idea di un telo trasparente che si frappone fra il pubblico e il palcoscenico, sul quale vengono retroproiettate alcune suggestive immagini che impreziosiscono la narrazione. L’unico difetto è che a volte abbagliano il pubblico. La scenografia, sempre all’altezza della situazione, con molti trucchi scenici, è veramente ben studiata.
Alessandro Gassman è molto bravo alla regia, misurandosi con un testo tutt’altro che facile. L’Arena del Sole di Bologna quasi al completo rappresenta una bella soddisfazione per lui e per gli attori, dato che è più facile riempire un teatro con uno spettacolo comico piuttosto che con un testo drammatico e riflessivo come questo.