Agnese Fallongo e Tiziano Caputo, segnate questi nomi, ogni volta che li vedrete, speriamo spesso sui cartelloni d’Italia, potete andare sul sicuro, non semplicemente a “vedere” i loro spettacoli, ma a esplorarli con un ventaglio di emozioni da capogiro. Un duo artistico di talento puro, che ha sugellato un sodalizio altrettanto proficuo con Adriano Evangelisti e Raffaele Latagliata che in Letizia va alla guerra firmano l’uno la regia e l’altro il coordinamento artistico, entrambe ottimamente congegnati.
E’ quasi difficile scrivere qualcosa su questa pièce, si rimane fulminati, colti da una sindrome di Stendhal del bello teatrale che toglie il fiato. C’è una drammaturgia raffinatissima, piena di slanci emozionali, curata in ogni dettaglio, così come la messa in scena: dalle luci ai costumi, alla scenografia. E’ tutto un perfetto incastro di suggestioni e splendore che irradia dal palco verso gli spettatori e non è affatto un caso che al termine della rappresentazione al Teatro Tor Bella Monaca domenica 15 gennaio ci siano stati cinque minuti di applausi, coi palmi letteralmente “sbucciati” dalla foga di riconoscere un omaggio a questi giganti della scena.
Sì perché si può agilmente parlare di vere e proprie creature artistiche fra le più onorevoli, che meritano un’incessante sentito incensare al pari di nomi più prezzolati, che sovente ci regalano le stesse vibrazioni d’anima. Un viaggio storico-dialettale lungo lo stivale questa Letizia va alla guerra, che intreccia tre donne e due generazioni, legate dall’amore e dalla voglia di vita non sempre giustamente appagata. Si ride, parecchio, ci si commuove, si batte il tempo coi piedi nei generosi spazi dedicati alla musica e al canto dal vivo. Tiziano Caputo offre una creazione musicale e un accompagnamento live fra i più belli e finalmente popolari nel senso più genuino del termine. Che dire poi della Fallongo? Che scrive, canta e interpreta con una scioltezza da navigata asfaltatrice di palcoscenici.

Il testo è sapientemente cucito sulle abilità della protagonista e ci restituisce una triade di donne diversissime eppure simili, legate non soltanto dal nome Letizia, letteralmente “colei che da gioia”, la stessa che la Fallongo accorda al pubblico nel vederla e ascoltarla, ma anche e soprattutto nella fame vitale che disegna e plasma questi tre grandi archetipi ben oltre il proscenio. Queste tre Letizia restano addosso, le porti a casa dentro una tasca del cappotto, nella borsa, ci accompagnano nel gesto quotidiano del giorno dopo e quello dopo ancora, come silenziose vestali di un monito da non dimenticare.
Letizia la sposina che si reinventa volontaria al fronte sperando di ritrovare il suo Michele, Lina-Letizia l’orfanella della Littoria che finisce a “fare la vita” in una casa chiusa della capitale all’alba della legge Merlìn e infine suor Letizia, la poderosa “padovana” che ruba il cuore, impossibile non amarla. Il destino schiuso fra un sorriso e una lacrima dentro questo nome, che sembra scivolare lento mentre la storia personale entra nella storia della nazione.
Tanto di cappello alla ricerca sociolinguistica che non è scontata e che utilizza l’efficace strumento musicale per custodire la preziosa eredità dei dialetti, che più spesso e ingiustamente releghiamo alle “parlate di serie B”. Si nota in questo una cura speciale, un po’ in tutte le produzioni di Agnese&Tiziano, da i Mezzalira passando per Fino alle Stelle, una danza di dialetto e note che non stanca mai e anzi offre a ogni visione spunti sempre nuovi per narrazioni sulle calate e le persone-personaggi del Bel Paese. Agnese&Tiziano incarnano la vera essenza del teatro, capace di arrivare a tutti, senza elitarismi, con un dettato drammaturgico altamente tecnico eppure fruibilissimo. Che altro aggiungere? Un inchino al talento.