Home Teatro Le serve di Genet, fame e sete di cieli stellati

Le serve di Genet, fame e sete di cieli stellati

Al Teatro Nuovo di Napoli dal 25 ottobre Le serve di Genet con Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia e Vanessa Gravina per la regia di Giovanni Anfuso

Se mai qualcuno volesse, per maligno e iniquo imperio del dio del teatro, accingersi all’impresa di voler separare, come il grano dall’oglio, il vero dal falso, la finzione dalla realtà, in un qualsiasi lavoro teatrale, ben presto sarebbe costretto, com’è ovvio, a rinunciare all’impresa: vale maggiormente, quest’assunto, per un testo come Le serve che Jean-Paul Sartre ebbe a definire “straordinario esempio di continuo ribaltamento tra essere e apparire, fra immaginario e realtà”. Aveva trentasette anni, Jean Genet, quando lo scrisse, dopo aver già provveduto a procurarsi nomea d’enfant terrible con la pubblicazione dei suoi primi romanzi scandalosi e in fama di pornografia, venduti sottobanco a maggior gloria o vituperio dell’autore; la sua carriera di drammaturgo comincia proprio qui, contemporaneamente alla stesura di Querelle de Brest, da questa scrittura così particolare in continua oscillazione tra sogno e incubo, tra, da una parte, perenne e deprecato risveglio in una realtà che sa d’innocenza profanata, spaesamento dell’anima, orfanità forzosa e, d’altra parte, desiderio infinito – cioè, come da etimo, de-sidera, fame e sete d’assenti o distratte stelle – di ricapitolazione del proprio essere in unità, cercando una pace non scontata con il cielo e la terra. Così, il fatto di cronaca in cui risiede il pretesto dell’idea – due sorelle domestiche che, senza motivo apparente, trucidarono l’intera famiglia presso cui erano a servizio – non è, come del resto per le altre opere dell’autore, appunto che pretesto, punto di partenza, espressione della mitologia del sottomondo di cui in fondo fa parte pure l’autore, malacarne di martiri e profughi in cerca d’approdo in un mondo altro e sradicato, di una travagliata e aliena déraciné di cui pure lo scrittore è parte viva e sanguinante.

Percepiamo, all’inizio, di queste Serve qui al Teatro Nuovo di Napoli, soltanto le voci, mentre i corpi loro appaiono emergere dalla penombra come cristallizzati in pose plastiche, nella camera da letto – tinta d’un verde ossessivo, avvelenato e gelido – della Signora (Vanessa Gravina), come si fosse prodotta una sfasatura nello spazio e nel tempo, sospensione asincrona dei sensi che non consenta fruizione piena e perfetta della realtà, come alterato specchio che dalla sua superficie non rimandi più a noi immagini mute, ma, invece, restituisca suoni discordi dalle immagini, espressioni di una dimensione altra, distante, che non soggiace alle leggi newtoniane dell’universo conosciuto e condiviso. Così è solo dopo qualche minuto che Claire (Manuela Mandracchia) e Solange (Anna Bonaiuto) – Solange nelle ricche vesti della Signora, Claire nei panni ruvidi e tristi di Solange – recuperano la perfetta sincronia tra immagini e suoni, visione e parola, che tuttavia rimane problematica, come se riuscissimo a stento a percepire ancora opaca la realtà effettiva delle cose, disturbata da una persistente e fastidiosa vibrazione, un turbato anancasmo che irrigidisce e incasella il dolore, che pure intuisci insopportabile dietro lo schermo del rito. Incontrastato domina dal fondo, su noi e loro, enorme ed incombente come un moloc ingordo e vorace, l’enorme specchio della Signora che non ha nome, messo lì dal regista Giovanni Anfuso con la complicità delle scene disegnate da Alessandro Chiti, a ricordare a tutti la duplicità affranta e gelida insieme di questo universo, chiuso e afoso e asfittico come una prigione della mente e dello spirito, dall’aria greve e graveolente del fetido odor di morte diffuso dai fiori che dilagano sul pavimento, impregnando d’oppressione i nostri sensi, i nostri pensieri.

Ai due lati dell’idolo-specchio, due enormi gigantografie della Signora tolgono ulteriormente e definitivamente spazio ed aria, come a indicare e indirizzare verso una blasfema e assoluta professione di fede nella Dea senza nome, giustifica, in fondo e a ben pensarci, dell’atto finale e sacrilego meditato e rimeditato, provato e riprovato nelle recite nascoste delle lunghe serate in assenza della Signora, mandato ripetutamente a memoria fino a diventare rito e liturgia, che si serve, come ogni culto, di simboli e segni, a un tempo tramite con la divinità e prassi d’evitamento e transfert dell’angoscia e del dolore, fino al sacrificio finale, culmine e senso dell’intero cerimoniale; che si nutre continuamente d’ambiguità, tuttavia, e caricandosi vieppiù d’obliqui significati, nel continuo andare e venire dalla messa in scena teatrale – il gran letto della Signora che occupa quasi tutta la scena è palcoscenico e altare insieme – entrare e uscire dalla realtà e dalla recita, fino a non distinguere più tra concretezza e sogno, fino a coinvolgere pure lo spettatore, immergendolo in un elusivo ed equivoco mistero, che è poi la giusta chiave di lettura della pièce. Perché poi, come non sentire distante, irreparabilmente lontana e datata, qualsivoglia interpretazione “realistica” di questo testo? Come non convenire con l’ammonimento dell’autore quando scriveva sulla necessità “che le attrici recitino non secondo un modulo realistico”? Perché trattar la vicenda come una sorta di rivendicazione delle domestiche povere contro le ingiustizie perpetrate dai padroni ci porterebbe, alla fine, da tutt’altra parte: se è vero che le serve esistono, in fondo, sol perché esistono le Signore, è pur vero il contrario, non ci sarebbero Signore se non esistessero le serve, che possano crearle prima di tutto nella loro immaginazione e, impersonandole, riescano a desiderare d’immaginare e (ri)creare se stesse.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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le-serve-di-genet-fame-e-sete-di-cieli-stellatiLE SERVE <br>di Jean Genet <br>traduzione Gioia Costa <br>regia Giovanni Anfuso <br> <br>con Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia, Vanessa Gravina <br>scene Alessandro Chiti <br>light designer Umile Vainieri <br>costumi Lucia Mariani <br>musiche Paolo Daniele <br> <br>produzione Teatro e Società in coproduzione con Teatro Stabile Biondo di Palermo <br>lingua italiano <br>durata 90' <br>in scena dal 25 al 29 ottobre 2017 <br>Napoli, Teatro Nuovo, 25 ottobre 2017

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