
[rating=5] Teatro di ricerca, d’innovazione, d’avanguardia: il Teatro del Carretto – compagnia residente al Giglio di Lucca – indaga sfumature sanguinarie e aurifere nella drammaturgia, la mitologia e la cronaca nera. I suoi tre attori sovrumani raccolgono degnamente – a nostro avviso – un’eredità andata quasi dispersa – quella di Carmelo Bene -, e coronano la visionaria regia di Maria Grazia Cipriani: una polifonia di fregi, stilemi, cambi scioccanti di atmosfere, che consacrano e distruggono la scena.
Le mille e una notte è una miniatura pulp e poetica, dove la storia di Shaharazade è il pretesto per decantare e agire racconti di pazzia, aggressione, di un conflitto millenario – ancora in corso – tra uomo e donna. Arianna e Teseo lasciano il posto a Orlando e Angelica, poi Desdemona, la straziante Ofelia; poi alle parole di Alda Merini e la paura di Dafne. La tragedia greca e la tragedia contemporanea fraseggiano con armonie luminosissime e oscure, mentre il lirismo si accoppia con la crudeltà. Elsa Bossi, con voce sempre struggente, aggraziata e pietosa, è attraversata da un soffio di divinità – amante, sposa, vittima sacrificale al furore maschilista. Definiremmo mostruosa la sua prova attorale, attorniata da due interpreti che, a loro volta, sanno superare se stessi – Nicolò Belliti, Giacomo Vezzani.
La messinscena è come un pizzo lacerato dalla musica e dalla scenografia raccolta, che si spalanca per mostrare una collezione di teschi e abiti di donne stuprate, vendute all’asta al miglior acquirente. Mentre i titoli più biechi dei telegiornali di oggi riecheggiano nell’aria. La scelta musicale impeccabile, al cardiopalma, spazia tra Beethoven e Verdi, ma anche Violetta Parra (artista peraltro suicida, nonostante il suo inno Gracias a la vida, con cui inizia e termina l’opera). In una stanza tremendamente buia, tuttavia, un frammento di stella potrebbe rischiarare la notte, dopo che si è raccontata una storia. Così il finale vede la vittoria del bene sul male, con Shaharazade che sfugge alla morte e cancella la follia omicida dalla mente del sultano Shahriyar. Un pensiero sublime sulla forza del cambiamento, da perpetuare con un linguaggio appena inventato.
Foto © Guido Mencari