Cosa sappiamo dell’amore, tra verità e illusioni? Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, il nuovo progetto di Claudio Cirri (prima nazionale del Materia Prima Festival), porta in scena questa domanda con un’intuizione registica che sposa perfettamente lo spirito del testo di Raymond Carver: lo spettacolo si svolge in appartamenti privati, trasformando gli spettatori in ospiti involontari di una conversazione che scivola dal banale al disturbante.
Andato in scena il 4 marzo in un’abitazione della dimora storica di Palazzo Pepi a Firenze, lo spettacolo inizia ancor prima della performance vera e propria. L’ingresso nel luogo stesso diventa parte integrante dell’esperienza teatrale: niente poltroncine rosse, niente palco, solo un tavolo attorno al quale gli attori sono già seduti. Al centro, una bottiglia di gin e acqua tonica, quattro bicchieri, del ghiaccio e delle fette di lime.
I quattro attori poggiano le mani sul tavolo, come in una seduta spiritica. Chiudono gli occhi, prendono un respiro profondo e, riaprendoli, sembrano evocare i personaggi sulla scena – o forse è il pubblico a essere stato evocato? Questa apparizione combacia con l’inizio del racconto, portato avanti da Cirri alternando narrazione e battute del proprio personaggio.

La scena è semplice, quotidiana: due coppie di amici siedono attorno al tavolo, bevono, chiacchierano, ridono. Ma come sempre accade nei racconti di Carver, sotto la superficie serpeggia un’inquietudine inafferrabile. Mel e Terri, più maturi, al secondo matrimonio, ospitano la coppia più giovane, sposati da poco. Si preparano a uscire per cena, ma tra un bicchiere e l’altro, oltre ai sentori del gin, emergono verità sottaciute, tensioni, frustrazioni. Mel, in particolare, si lascia andare a riflessioni sull’amore che tradiscono rabbia e un’immensa disillusione: l’amore che resiste alla prova del tempo esiste davvero? O è solo una narrazione che ci raccontiamo per non cedere al vuoto?
Il realismo è disarmante: il pubblico, a un passo dagli attori, ne percepisce ogni sfumatura, ogni movimento impercettibile. È un’immersione completa, come se ci si trovasse a quel tavolo, risucchiati da una conversazione che svela, a poco a poco, abissi nascosti.
Gli attori (Fabio Mascagni, Luisa Bosi, Maria Bacci Pasello, Claudio Cirri) danno corpo a personaggi trattenuti e stratificati, restituendo la complessità emotiva e il senso di sospensione che percorre l’intero testo. Lo scambio tra loro è fluido, naturale, eppure carico di una tensione latente che cresce fino a diventare quasi insostenibile.
Cirri dirige con un raffinato gioco di pause e sospensioni, costruendo un ritmo pinteriano, dove il non detto pesa quanto le parole. La routine si crepa, lenta, e come in Miller le verità emergono da sole, nude e spietate. Il ritmo è frammentato, le frasi restano sospese come se la conversazione fosse già iniziata altrove, e il finale non arriva mai davvero: si dissolve, lasciando dietro di sé un senso di incompiutezza.
La regia attinge allo stile di Sotterraneo, il collettivo di cui Cirri è cofondatore e attore, e lo fa con una struttura narrativa che sembra quella di un libro: non veri e propri dialoghi, ma un tappeto narrativo uniforme, in cui le battute emergono come fori nella trama del racconto. I personaggi prendono vita e respiro dai tagli della narrazione, proprio come sulla scena riprendono fiato all’unisono prima di immergersi nuovamente e addentrarsi ancora di più nel vivo di una conversazione che rivela crepe di insoddisfazione e disillusione.
Luci spente, gli attori immobili cantano No Surprises dei Radiohead: un’immagine che inchioda, come se quei personaggi fossero prigionieri di quella stanza, di quel dialogo infinito. Restano lì, vuoti come la bottiglia di gin al centro del tavolo, ombre che sfumano nel buio. Un brivido resta sospeso: ma in fondo l’amore, che cos’è?