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La maschere nude delle Bestie di scena

Arriva al Teatro Bellini di Napoli "Bestie di scena" di Emma Dante

No, adesso non state lì a fare pensieri strani, che c’entra Pirandello – oltre all’ovvio d’esser conterraneo d’Emma Dante – e soprattutto il pirandellismo dei tanti falsi emuli, il titolo di questo articolo potrebbe effettivamente fuorviare i miei soliti quattro lettori affezionati, dove sono i cervellotici, verbosi, tortuosi ragionamenti, dov’è il raisonneur dall’arguzia facile, in questo Bestie di scena che in questi giorni arriva – finalmente – a Napoli, al Teatro Bellini? Non parlano affatto, se è per questo, le nude bestie che stanno sulla scena, al massimo qualche esclamazione stereotipa, un en garde o un olà quando serve, oppure il turpiloquio – quasi affetti da Gilles de la Tourette – che accompagna risse che sembrano obbedire anch’esse ad ossessive repressioni e ad anancasmi arcani, generico grammelot senza urgenza di comunicare cui sembrano soggiacere i tredici personaggi che si agitano sul palcoscenico cercando… un autore!, direte voi, tornando ancora a Pirandello.

Ma no, ma no, tutto è cominciato in gran tranquillità, sei entrato in sala cercando il posto che ti hanno assegnato, qualche attore, già sul palcoscenico, si riscalda sciogliendo i muscoli. Piano piano entrano tutti e tredici, e mentre gli spettatori tolgono il cappotto, si salutano, fanno commenti un po’ enfatici tanto adatti al caso – ah, la magia del teatro! esclama estatico il mio vicino – si dispongono in circolo, uno di loro al centro, dandosi frequentemente il cambio, impegnati un una sorta di balletto infinito che molto li impegna, non son più esercizi di riscaldamento, ti pare, sempre più sembra una ben coordinata coreografia in cui ognuno ha il suo posto, sa bene cosa fare, il preciso gesto al momento giusto. Questo diventa tanto più evidente quando le bestie rompono il circolo – silenzi, comandi, affanno, sudore – s’addensano rapide e compatte in un gruppo che marcia con passo di leggera corsa – che non ha nulla di marziale, di volta in volta almeno uno, con cadenza programmata e perfetta, cammina al contrario – dando un tempo e un ritmo allo spettacolo.

È da notare che, mentre tutto questo avviene, e gli spettatori s’accorgono progressivamente del cambiamento, abbassando la voce e smorzando il chiacchiericcio, le luci in sala continuano ad essere accese, né c’è alcun sipario che si alza, e nemmeno vengon letti i normali avvisi registrati che avvertono il pubblico dell’approssimarsi dell’inizio dello spettacolo: mancano, cioè, tutti quelli accorgimenti tecnici – luci, parola, movimenti sulla scena – che, in via “normale” agiscono da cesura, rassicurando te che sei seduto sulla tua poltroncina rossa in quarta fila della platea che altro è lo spettacolo, altro la vita, restando l’uno ben distinto dall’altro, anche attraverso una serie di eventi sentinella che progressivamente aumentano la tua distanza, soprattutto emotiva, dal proscenio.

In questo “spettacolo”, dunque e invece, non c’è alcuna soluzione di continuità tra il palco e la platea, tra l’attore e il pubblico, tra il tempo di prima e il tempo di dopo, né c’è alcuna necessità di rompere la quarta parete che, semplicemente, non c’è; almeno, questa dovrebbe essere l’intenzione dell’autrice regista, in apparenza smentita nell’attimo in cui, dopo una pazza, angosciata corsa attorno al palcoscenico – l’ansia d’un barlume di coscienza – tornano tutti e, uno dopo l’altro, quasi a non poterne fare a meno, si tolgono i vestiti, prima la maglietta, poi i pantaloni, i calzini, tutto. «Come Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, le “bestie” finiscono su un palcoscenico pieno di insidie e di tentazioni, il luogo del peccato, il mondo terreno», dice Emma Dante.

Ci guardano, come dall’altra parte dell’acquario, guardano noi “normali” con uno sguardo che non saprei se definire contrariato, dolente, invidioso, risentito, interrogativo, ci guardano e intanto tentano di coprirsi tutti il sesso e le donne i seni: paura, pudore, inermi di fronte alla caduta di ogni riferimento alla “norma” che li vuole, vestiti, adeguati e sottomessi e conformisti, ritrovandosi deboli ma liberi, attori nudi nella perfetta adesione al “far teatro”, all’essere teatro, una nudità che, sempre “casta”, pur se provocatoria, a noi “vestiti” genera, può generare, imbarazzo. Ma, una volta che ci si pensa, in fondo, passato il primo momento, alla fine concludi che il tutto ha una sua coerenza interna, una sua ragione, perfino una sottesa poesia, al di là della raffinatissima, quasi astratta, pur nella sua evidente “carnalità”, rappresentazione del teatrare, colto nella sua intima sostanza, che è irrefrenabile pulsione. Cos’è, il teatro, se non progressivo ma definitivo ed efficace smascheramento e smantellamento dei luoghi comuni, degli eterni topos che sempre ritornano, dei ruoli stereotipati in cui costringiamo la vita, come abiti che ci proteggono ma, pure, ci mascherano?

Da questo punto in poi, infatti, cessa lo sdoppiamento tra attore e personaggio, la sala è ormai buia, la carne e il sangue degli attori – mai espressione fu così letterale – son carne e sangue dei personaggi che, di volta in volta, come costretti da insopprimibile pulsione, le bestie, ciascuna per ciò che sa di essere, “saranno” qualcuno o qualcosa, assumeranno il ruolo che “devono” interpretare, “usati” dal teatro e dalla loro stessa passione come attrezzi di scena, bestie di scena, appunto, ribadendo il fondamento di ogni rappresentazione teatrale e di ogni finzione, moltiplicando a dismisura, in questo caso, nella loro indifesa nudità, nella pronta e cieca disponibilità, la lacerazione e la frantumazione della propria identità: maschere nude, incapaci di opporre resistenza alla frammentazione dell’identità cui sono soggetti, perché sul palcoscenico si mostri la falsità delle convenzioni, i giochi di ruolo, l’incomunicabilità che mina ogni sana relazione umana.

Così, di volta in volta – son richiami al teatro dell’Autrice, ma chiarissimi pure per chi non ha mai assistito a un suo spettacolo – attrezzi di scena o situazioni generate al di fuori del gruppo, non si sa bene da chi, per quanto ne sappiamo potrebbe essere Dioniso stesso, ricordando Beckett, stimoleranno il gruppo a comportarsi in un certo modo, ad assumere, nonostante se stesso, nonostante l’imbarazzo e la vergogna, un ruolo, a svolgere una prova. Teatro? Vita, forse: gli “imbecilli” come li chiama l’Autore, le bestie, i semplici, reagiscono come possono, a volte in modo naturale a stimoli elementari, come la sete, il freddo, la paura dell’ignoto e del rumore: se, però, tutti bevono avidamente, anche aiutandosi l’un l’atro, per poi soffiar via l’acqua verso l’alto, come balene, creando suggestive nuvole d’aria e acqua, se tutti saltan via più o meno spaventati, solo uno riuscirà a far di quella difficoltà un’opportunità, a zompare come un funambolo per tutto il palcoscenico, solo una, all’arrivo di una bambola, cadrà a terra come una bambola meccanica rotta, solo uno, all’arrivo d’una spada, si metterà a duellare come un provetto schermidore.

Spunti, citazioni ed autocitazioni, la ballerina che danza al carillon, la scimmia che mangia e sputa noccioline, Only you tardoromantico, momenti a volte poetici a volte meno, a volte illuminanti a volte criptici, colori e opacità, luci e buio, ombre e chiaroscuri si riverberano su corpi che, nonostante la nudità e l’esposizione, son volutamente privi di seduzione e d’anima, sembrano riflettere, invece, uno stereotipato automatismo, più che una vera partecipazione, come in certe malattie mentali dove il gesto rimanga a testimonianza d’una affettività ormai perduta o, come ci sembra in questo caso, in cui il gesto autoimposto risponda ad una intima pulsione che prelude alla coscienza.

Poi, un gran finale in cui tutte queste situazioni, tutte queste prove, tutti questi gesti anancastici ritornano, e tutti insieme, in un caos salutare e quasi festaiolo che però s’interrompe bruscamente perché arrivano in scena, scaraventati al centro dalla solita mano ignota, i vestiti: la reazione è particolare e clamorosa, perché – è ancora l’Autrice che parla – «gli “imbecilli” disubbidiranno. Sceglieranno di restare nudi in schiera davanti a noi. La loro scoperta sarà di essere sempre stati nudi e di non essere stati altro che quello. Non avrà più senso raccogliere, coprirsi, compiere altre azioni ma semplicemente stare, e guardare»: la disubbidienza apre, dunque, ad un primo barlume di autocoscienza, ad una autonoma presa di posizione. Opera complessa pur nella sua apparente semplicità, con momenti in cui la temperatura sale, alternati con altri in cui meno profonda è la poesia, ci sembra Emma Dante come quel capofamiglia della parabola che dal suo tesoro tiri fuori cose vecchie e cose nuove, aprendosi ad un modo senz’altro diverso di far teatro, pur non ancora compiuto e chiaro nemmeno a lei che, d’altra parte, vede il mucchio di vestiti che restano a terra dopo lo spettacolo come macerie, «sintesi delle occasioni mancate», che tuttavia aprono alla necessità di fare «uno spettacolo nuovo, il prossimo, quello che non sono mai riuscita a creare, lo spettacolo mancante». E questo, in estrema sintesi, mi pare il miglior pensiero che si possa fare su questo “spettacolo”.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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la-maschere-nude-delle-bestie-di-scenaBestie di scena <br>scritto e diretto da Emma Dante <br>con Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Marta Zollet <br>e con Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara <br> <br>luci Cristian Zucaro <br>coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d’Avignon coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma <br>durata 70 minuti <br>in scena dal 5 al 10 febbraio 2019 <br>Napoli, Teatro Bellini, 5 febbraio 2019

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