Hannah Arendt, nel 1975, vive a New York, consumando quel che le resta da vivere stemperandolo in un apparentemente tranquillo, lungo, estenuato, forse stanco ma sempre vigile e lucido tramonto. La vediamo in casa sua (è una eccellente Anita Bartolucci, che sa dare il tono giusto al suo personaggio, energico, volitivo, di studiosa leggermente affaticata dall’età ma ancora lucida come una lama tagliente e forte), all’inizio di questa bella pièce, La banalità dell’amore, dell’israeliana Savyon Liebrecht al Teatro Mercadante di Napoli, per l’adattamento e la regia di Piero Maccarinelli, riposarsi in poltrona, convalescente dopo il recente infarto che ha indotto il suo medico a proibirle il fumo – buona parte dell’ora e mezza della durata complessiva dell’atto unico sarà dedicato alla spasmodica ricerca d’una sigaretta – e a raccomandarle vita tranquilla e senza emozioni: ma come si fa a non lasciare che il pensiero vaghi libero al di là delle quattro mura della stanza, anzi la popolino di vivide immagini, come si fa a impedire che i ricordi di una vita, e di una vita appassionata e vissuta pienamente come la sua, non incrocino ancora ciò che resta del giorno, non l’attraversino come materializzate incarnazioni dell’amore e della passione, dell’ansia e della paura, della curiosità intellettuale e dell’entusiasmo della conquista? Come si fa, poi, a star tranquilli, soprattutto oggi che un giornalista, Michael Ben Shaked (Giacinto Palmarini, nel ruolo anche di Raphael) le ha chiesto un’intervista per conto dell’Università di Gerusalemme?
È l’occasione che aspettava da anni, potrà finalmente parlare del processo Eichmann, chiarire una volta per tutte con la patria degli ebrei il senso equivocato dell’espressione banalità del male del suo più famoso libro, che non vuole sminuire ma semmai aggravare, non intende svuotare di senso l’orrore dell’olocausto ma svelare, invece, il vuoto del quotidiano monotono morire che si cela dietro l’obbedienza estrema di mille piccoli esecutori. No, non è scritto contro Israele, il suo resoconto del processo, fino ad allora in quel paese proibito perché giudicato a torto antisionista, pur se parla della sporcizia levantina che affligge Gerusalemme, se mai puntuale e puntuto atto d’accusa contro Ben Gurion, che allora lì governava, per aver voluto un vero e proprio processo spettacolo, da lei prontamente e con l’usuale lucidità denunciato: il dibattimento si svolge su una specie di ribalta, davanti a un uditorio, e il grido magnifico dell’usciere, al principio di ogni udienza, fa quasi l’effetto di un sipario che si alzi.
E oggi i ricordi, si fanno più vivi che mai, è il 1924, un’altra Hannah (la giovane Federica Sandrini) prende vita e vigore, più giovane e meno cinica, trasformando per un po’ una parte della stanza nella baita nella Schwarzwald di Raphael Mendelsohn, l’amico di sempre, l’innamorato non ricambiato, il compagno di studi: come in una macchina del tempo, ritornerà, Hannah, a rivivere in quella baita la nascita di un amore, la nascita dell’amore della vita, che continua anche quando finito: l’amore per il professor Martin Heidegger (Claudio Di Palma sa trovare – e non era facile! – come restituirci questo personaggio, insieme leggero e severo, fascinoso e ributtante).
Un amore proibito – lui è il suo insegnante di filosofia all’Università di Marburgo, ha trentacinque anni e lei diciotto “…e quattro mesi”, è sposato con Elfride, ha due figli – ma che inesorabile come l’implacabile compiersi d’un sortilegio, audace come un temerario e pagano rito d’iniziazione, drammatico come il prologo d’una saga antica e sempre uguale nel dipanarsi ansioso degli eventi, trova il modo di metter radice e crescere in una relazione asimmetrica che il filosofo, romantico scrittore oltre che mente più brillante del secolo breve, sa alimentare – tu rappresenti una nuova felicità per me, per la quale sono riconoscente ogni giorno… non potrei immaginare la mia vita senza di te, senza parlarti, senza vederti, senza toccarti… tu sei parte di me… la notte ti sogno – di sensuali slanci e d’amore per la cultura tedesca, grido del desiderio e del dolore, come quello che apre la prima Elegia Duinese che Rainer Maria Rilke proprio in quegli anni andava pubblicando, tra le schiere degli angeli, perché poi, il bello è solo l’inizio del tremendo: asserzione più che mai a proposito, per descrivere l’eccitazione e il tormento dei due amanti, che vivranno la loro relazione clandestina negli anni di ascesa di Hitler, ridicolizzato e minimizzato, all’inizio – con quei ridicoli baffetti e l’accento austriaco – temuto poi – quello che dice a proposito degli ebrei è un chiaro espediente per ottenere più voti, nient’altro – per diventare infine mezzo per l’affermazione della Nazione e della superiorità ariana – è questa la cosa importante: la nostra cultura, che non ha eguali al mondo fin dall’epoca dell’antica Grecia… e la nostra lingua, la più sublime, l’unica nella quale sono in grado di esprimere il mio pensiero – in una geometrica progressione che brucia le tappe e le coscienze, fino alla fine della relazione, alla fuga di Hannah in Francia con il primo marito, poi, con l’occupazione, l’arresto perché ebrea e militante sionista, infine l’approdo definitivo, con il secondo marito, negli Stati Uniti della libertà e dello sradicamento.
Ma se l’Agnelus Novus, angelo della storia, ha il viso rivolto al passato, tuttavia è spinto dalla tempesta che viene dal paradiso irresistibilmente verso il futuro, a cui volge le spalle, e quel futuro è il qui ed ora del tempo teatrale: comincia l’intervista, ma le cose non vanno come devono andare, lo strano giornalista, che poi si rivela essere il figlio di Raphael, il vecchio amico ormai morto e da sempre e per sempre innamorato di lei, non sembra interessato al processo Eichmann, molto di più – ancora – al passato, alle rovine accumulate, alle sorde accuse di tradimento della propria gente, il popolo d’Israele, perpetrato attraverso la relazione con Heidegger, dapprima allusioni, poi mezze parole, infine grida e lacrime e tempesta, perché ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta, in un divenire che è rimpianto ma anche abbandono, lucida razionalità e spenta follia, rimorso, gioia, amore ancora vivo, ancora oggi che la sera della vita è vicina – morirà alla fine di quell’anno, Hannah – e lo sguardo più di frequente insiste a considerare la linea d’ombra che guadagna il cortile.
Ma in questo uragano, in questa implosione che senti fin nelle ossa, si realizza la comunione dell’amore, in aperta contraddizione con la storia e con la razionalità delle leggi e dell’etica, in una banalità che è, in fondo, solo trascendenza delle umane cose, inconoscibiltà del Dio che, incomprensibilmente, ogni secondo compie incomprensibili gesti rivolti alle sue incomprensibili creature: così è per lo stranamore di Hannah per Martin, ma anche per l’amore degli ebrei tedeschi nei confronti della cultura tedesca e per quello di uno dei più grandi filosofi della storia per uno dei regimi più mostruosi e più odiosi: passioni oscure, impenetrabili nella loro indefinita essenza, inintelligibili se non letti, e compresi, in una dimensione d’ordinaria, quotidiana, consueta banalità.