Portare a teatro un testo letterario incompiuto che peraltro il suo autore voleva destinare nientemeno che alle fiamme, è già una sfida, se poi l’autore in questione è Franz Kafka e il testo è Il Processo, beh allora si può ben dire di camminare su un terreno decisamente minato. Nelle premesse tuttavia l’ultimo postumo romanzo del grande autore boemo possiede tutti gli elementi di “trasposizione” teatrale e filmica, come d’altro canto diverse altre sue opere visionarie. Orson Welles lo portò al cinema, dando al protagonista il volto di Anthony Perkins, appena due anni dopo che lo stesso si era incastrato per sempre e suo malgrado nell’immaginario mondiale come l’assassino psicopatico Norman Bates. Il film non fu accolto bene dalla critica, ma poi rivalutato, in TV invece fu Luigi di Gianni a migrarlo in RAI con un cupo e raffinato sceneggiato. Si sa le sfide piacciono e neppure il teatro ha mancato la chiamata alla scena: pioniere fu André Gide della cui versione possiamo solo immaginare la grandezza da chi ebbe l’opportunità di vederla, stesso dicasi per quella di Missiroli negli anni ’70, per chiudere infine sulle riprese a singhiozzo lungo i duemila dell’interpretazione di Battistini. Tutte però accomunate dall’angoscioso e ineluttabile scenario di quelle che oggi chiamiamo appunto “situazioni kafkiane”, dove sulla ragione vince l’assurdo.

E’ su questo nodo centrale che si gioca la partita. Kafka per un certo tempo si era interessato al teatro Yiddish, che custodiva nelle radici un’anima popolare e satiresca tanto che a lungo fu considerata una forma artistica minore, ma proprio qui, in seno alle serissime storie della Bibbia, trovavano spazio anche ballerini e pagliacci. Forse in questo curioso ibrido poteva già svilupparsi in nuce quel “grottesco” che pure appartiene ai personaggi kafkiani e che tuttavia sovente rimane inghiottito nelle trasposizioni visive dello stesso, a favore piuttosto di un universo nero di irrisolutezza.
L’operazione registica della Masullo e ancor prima l’adattamento di Massimiliano Giovannetti e Michele Montemagno, portato in scena al teatro Ciak di Roma dal 21 ottobre al 14 novembre 2021 ha puntato piuttosto i fari, è il caso di dire, anche in omaggio alla costruzione scenotecnica di Fabiana De Marco e Marco Catalucci, proprio su questo aspetto grottesco. C’è persino troppa luce in scena, noi abulici lettori e ancora verdi spettatori delle fumose e scure atmosfere che ci hanno insegnato appartenere a Kafka, quasi non lo riconosciamo come teatro appunto di quegli scritti così noir. Eppure quel ritrovato grottesco e quella luce pop rimbalzano sui corpi in palcoscenico creando un buon raccordo per tutto il primo atto, complice anche una recitazione corale davvero strepitosa di un gruppo di grandi professionisti. Qualcosa però si inceppa nel secondo atto. La forzatura macchiettistica di alcuni dialoghi e persino certi sketch ripetuti inutilmente (la parlata balbuziente-trattenuta di un avvocato prima e del pittore poi per citarne una) risultano poco efficaci. Peccato perché la forza di certe immagini tiene e anche bene: penso alle maschere da coniglio (che per un attimo ci hanno trasportati nella durezza scenica della visione del Macadamia Nut Brittle di Ricci-Forte e del coniglio-corifeo di Castellucci), le bolle di sapone o la sferzata di fiocchi di neve. Tutte ben pensate e posizionate, a calare però è il ritmo.
Ci siamo persi in sala, come Kappa nei meandri di un processo del quale non riesce a sapere nulla fuorché di essere un accusato. In quella strana giungla solo vagamente novecentesca, non trova spazio l’innesto col quale immaginiamo sia nata l’idea di spettacolo: quel raggio sferzante di luce viola che poteva sciogliersi piano dentro un universo post-apocalittico in cui tutti saremmo stati davvero come il povero K., anime solitarie asserragliate in un circo di replicanti azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Ecco forse manca questo, solo questo: una vera reale compartecipazione emotiva. Lo spettacolo ad ogni modo merita una visione, è un vero esercizio di stile nel senso meno manieristico del termine, per quel che riguarda l’atto recitativo: Linda Manganelli, Fabrizio Bordignon, Barbara Abbondanza, Gigi Palla, Enrico Ottaviano e naturalmente Ruben Rigillo che veste i panni del protagonista, ci regalano pezzi da maestri. E’ un piacere ascoltarli e veder plasmare in loro i personaggi che abbiamo potuto solo tratteggiare vagamente nella nostra testa, confrontandoci non senza difficoltà col testo originale. Bravi.