[rating=4] L’aria, sospinta verso il basso dalla pala rotante fa svolazzare l’elicottero su e giù, a destra e a sinistra sul palco del teatro Duse di Bologna, all’apertura del sipario per lo spettacolo “Don Giovanni, vivere è un abuso, mai un diritto” di e con Filippo Timi. Il giocattolo radiocomandato atterra e, accompagnato dalla musica del “Vesti la giubba”, meglio conosciuto come il “ridi pagliaccio” dell’opera “Pagliacci”, ci introduce nella frivola ed epicurea vita di Don Giovanni, famoso donnaiolo ma che qui ha una connotazione più da bambino viziato, riverito dal servo Leporello che lo veste, lo coccola e gli porta perfino un water su ruote per supplire anche a quel tipo di bisogno. Perfino lo spauracchio della morte lo annoia: “credo che i padri delle signorine che avete sedotto ierisera stiano arrivando per farvela pagare”, “non ne ho voglia, che mi ammazzino”.
Don Giovanni si muove in un mondo dove gli uomini o sono cornuti o rappresentano gli unici ostacoli alle future conquiste, dove i servi sono forzatamente omosessuali (non possono essere donne perché sarebbero facili vittime, ma neanche uomini: lui non avrebbe charme su di loro e lo abbandonerebbero), dove le donne sono caricature, prede da catturare, usare e poi gettare via, dove la conquista, l’inganno e lo scampato pericolo sono il picco adrenalinico che porta velocemente all’astinenza.
In tutta questa mistificazione e teatralità, l’inganno parte sempre da un attento ascolto delle donne (enfatizzato dal microfono a giraffa durante i loro monologhi?!), che vengono posizionate sul piedistallo più alto e in questo modo adulate, come fossero delle ballerine di un carillon, per trovare i loro punti deboli ed ottenere così il mero piacere momentaneo. Dal canto loro, le donne sono oggettivate ed anche ridicolizzate, come nel filmato di un spot giapponese di un medicinale antidiarrea o nell’esilarante tentativo di seduzione della figlia della mugnaia, derisa per la sua ignoranza. Cadono nella rete di Don Giovanni perché volutamente si tramutano in pesci; nella scena finale infatti sono vestite degli stessi abiti che avevano durante lo spettacolo ma di colore rosso, simbolo del peccato che le attanaglia al pari del donnaiolo dato in pasto alle fiamme.
Lo spettacolo è molto carino, Timi balla e canta in modo egregio, oltre a reggere bene la parte in tutte le sue sfaccettature. Di sicuro lo hanno aiutato un cast di attori di buon livello, la bella scenografia ed i curatissimi costumi, che rendono i personaggi plastificati e grotteschi. La rilettura del Don Giovanni è profonda e rende il testo comico e moderno, “Siete un dongiovanni! Vedrai! Come si chiama lo spettacolo, Topo Gigio?!”. Spesso le battute hanno la leggerezza e lo spirito paradossale dei testi di Oscar Wilde e rendono spassose le due ore e mezza di spettacolo.
I personaggi, rivisti e distorti rispetto alla versione di Mozart, sono comunque credibili ed approfonditi. Anche nella scena finale, il mozartiano “chi la fa l’aspetti” (scena poi tagliata nelle successive rappresentazioni), viene sostituito da un urlo di onnipotenza, “io mi prendo gioco dell’aldilà”, le credenze religiose sono ridicolizzate dall’immagine forte di un Gesù su sedia a rotelle e flebo (“Dio figlio dell’uomo”), la morte è vista semplicemente come la fine della vita e non come l’inizio della punizione divina del peccatore all’inferno. Nel rovesciamento di tutte queste “certezze” trova la sua logica anche il sottotitolo “vivere è un abuso, mai un diritto”.
La canaglia Don Giovanni frega tutti, mortali e non, con la sua semplicità e linearità, eliminando tutte le costruzioni sociali ed etiche, ma appagando i suoi bisogni senza darsi regole e soffrire di sensi di colpa, come fanno i bimbi: “Se le donne fanno gli uomini noi cosa facciamo?! Continuiamo a fare i bambini”.