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Aspettando Godot, la visione performante di Terzopoulos

Randisi-Vetrano interpretano Didi e Gogo al Teatro Vascello

Aspettando Godot regia di Theodoros Terzopoulos

Perché Aspettando Godot sia il capolavoro assoluto del cosiddetto teatro dell’assurdo, che poi tanto assurdo non è affatto, è presto detto: ci sono dentro i ruoli principali ricoperti a tempi alterni dall’umanità: lo schiavo, il padrone, il postulante, la sentinella. Ma soprattutto è un viaggio dell’eroe al contrario, dove sono protagonisti i “comprimari”, i quali si consumano nell’attesa feroce di un presunto personaggio-chiave, che incombe tuttavia per paradosso solo con la propria assenza.

Mi viene in mente una celebre battuta di Moretti in Ecce Bombo: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo?” Perché in fondo questo eterno dilemma dell’apparire ci riguarda tutti da vicino, allora come oggi, cambiano solo i mezzi per farlo. E forse in questa dinamica presenza-assenza, che adesso pure impazza fra social e carta stampata, nondimeno in occasione di “ospitate particolari”, in tempi dove la “guerra” si fa pure in TV, calza anche a pennello la versione di Terzopoulos della celebre pièce beckettiana, in scena al Vascello dal 31 gennaio al 5 febbraio.

Il tema della guerra che c’è sempre ma non si vede, è ricorrente. Con Pozzo che calza un elmetto al povero Laki, o ancora la collana di coltelli che scende da un cielo nero, così come il filare di libri illuminati di rosso sul finale e le vesti sporche di vernice e sangue di tutti i protagonisti. Ma esplode in tutta la sua potenza visionaria pure il concetto di “sacrificio”, con l’enorme croce mobile dove si consuma l’azione. Perché poi ognuno c’ha la sua da portare, che nel caso di Didi e Gogo, ma anche un po’ nel nostro, è la reiterata, disperante, ottusa attesa di un’epifania di cui il signor Godot dovrebbe farsi artefice.

Che Godot sia il Dio a cui rivolgiamo le nostre preghiere, o un furfante qualunque, uno strozzino, o un signorotto di potere poco importa, continueremo a cercarlo inutilmente dentro un cappello o una scarpa, trascinando nel frattempo una valigia piena di sabbia.

Che dire di questa regia così audace? Un classico tanto amato è sempre difficile da vedere in forme mutate, non “tradizionali”, che pure forse lo stesso Beckett avrebbe deriso e rifiutato come etichetta; giova tuttavia rilevarne gli aspetti più interessanti. Su tutti, in luogo del noto “albero” che popola la “località del Palco”: il piccolo bonsai, che forse incarna il vero assurdo della parabola di due vagabondi, che provano a impiccarcisi con una cinta troppo corta. Ma anche la stessa croce-cubo, che gioca con le fessure di luce, facendo talvolta le veci dell’albero, appunto “assente”, talaltre schiacciando come una pressa le estenuanti maratone dialogiche di Vladimiro ed Estragone.

Enzo Vetrano e Stefano Randisi in Aspettando Godot

C’è da elaborare e macerare un po’ di iniziale straniamento, per questo viaggio “sospeso” nel buio, per questa croce gigantesca nel cui cuore vuoto si muovono i personaggi, quasi come un teatro di marionette, ma non del tutto. Il buio è mozzato ai lati e scopre l’artificio della scatola di luce da cui vediamo lo svolgersi della scena, proprio come in un piccolo schermo televisivo. Forse il teatro delle marionette sarebbe stato eccessivamente manieristico, eppure viene in qualche modo evocato e nella vicenda dei due viandanti attendisti, incapaci di fuggire dalla trappola della speranza, sembra dopotutto un perfetto artificio teatrale, che tuttavia rimane incompiuto.

C’è molto, anche troppo in questa visione performante di Aspettando Godot prodotta da ERT e Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini. Dentro-fuori, redenzione, pazzia, sogno sulle rovine di un mondo apocalittico, già distrutto. Ebbene si coglie ogni cosa, ma con tanta distrazione, prodotta dal riempirsi lo sguardo di tutta quella grande macchina scenica, a scapito del testo, che dovrebbe piuttosto rimanere il fulcro irradiante di tutta la rappresentazione. Certo per chi ama Beckett è sempre un piacere ascoltare, rivedere questa pièce fino allo sfinimento, eppure qualcosa stride, rimane incastrata, lontana, forse proprio nell’altrove sconosciuto abitato da Godot.

Qualcosa insomma non funziona, non arriva davvero allo spettatore: ad esempio il monologo convulso di Laki (Giulio Germano Cervi), o anche i movimenti meccanici non abbastanza discreti della scatola cubica e ancora il disegno luci poco generoso sul piccolo bonsai, che invece poteva essere celebrato come vero protagonista della scena. Ma qui si cadrebbe banalmente nelle scelte di regia che dopotutto sono sacre, non resta allora che coglierne le ombre, quelle che non hanno fatto abbastanza per permettere, eventualmente anche a uno spettatore abulico di Aspettando Godot, di godere appieno di un testo che ci racconta l’insensatezza del nostro essere, nella maniera più sensata possibile.

Discorso a parte per Vetrano-Randisi una coppia meravigliosamente a proprio agio in qualsiasi “località chiamata Palco”, due che sprizzano talento puro e che giganteggiano in ogni ruolo gli venga affidato. Menzione speciale anche per Paolo Musio nel ruolo di Pozzo, Rocco Ancarola è invece il messaggero, complici forse le luci e gli abiti, quasi un gemello del Laki di Cervi. Uno spettacolo insomma degno di nota, sicuramente una nave ben costruita per solcare il periglioso mare delle platee, ma con qualche falla, o per dirla con Laki: “malgrado il tennis, avanti il prossimo”.

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aspettando-godot-la-visione-performante-di-terzopoulos“Aspettando Godot” di Samuel Beckett Copyright Editions de Minuit Traduzione Carlo Fruttero Regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos Con Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Paolo Musio, e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola Musiche originali Panayiotis Velianitis consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con Attis Theatre Company

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