
Un enorme palco vuoto, desolante nella sua grandiosità non riempita, è come un silenzio che urla e stride, un luogo che dovrebbe prepararci emotivamente a quello che vedremo, ma invece ci comunica una sensazione opposta, la mancanza di qualcosa. Questo è solo il primo assaggio della destrutturazione del messaggio teatrale operata da Pippo Delbono nel suo nuovo spettacolo, in prima assoluta, “Orchidee” al VIE Festival, nella splendida cornice del Teatro Comunale Pavarotti di Modena.
Il famoso regista entra in platea dalla parte posteriore e si siede ad un minuscolo tavolino collocato nelle ultime file. La sua voce, calda e pastosa, apre lo spettacolo e ci emoziona fin da subito, anche quando ci chiede semplicemente di spegnere il cellulare. Il pubblico difficilmente riesce a rintracciare Delbono con lo sguardo, data la sua posizione in fondo alla platea, ed è costretto a vagare con lo sguardo ancora nel vuoto iniziale, in quella mancanza e in quella perdita che ci sussurra l’argomento dello spettacolo: la morte della mamma di Pippo, avvenuta un anno fa.
Questo vuoto viene riempito da attori senza voce, che cantano un pezzo di opera in playback, o che non sono chiamati a recitare ma ad essere sé stessi, a raccontarci parti della loro vita e non a vivere quella dei loro personaggi. La comunicazione teatrale è completamente stravolta, solo il regista parla e interagisce direttamente con il pubblico, gli attori diventano delle marionette che tentano di riempire uno spazio vuoto, che quando interpretano un personaggio sono in playback, che risultano quasi fuori posto e solo di passaggio, che spesso sono nudi ed indifesi. A questo proposito, interessante il momento in cui un’attrice si presenta nei panni di sé stessa e, visibilmente imbarazzata, ci confessa che il regista è alla ricerca della verità e che quindi nessuno reciterà, come a dire che sulla morte della mamma non ci devono essere bugie, solo sensazioni vere, solo calore ed emozioni forti, ma niente ipocrisie, nessun falso buonismo, nessun “apparire”.
Intanto Delbono parla, sussurra, respira nel microfono, interpreta la voce narrante che coincide con chi ha vissuto quelle sensazioni, neanche lui sta recitando una parte. I suoi racconti sono molto emozionanti, si intravedono i suoi recenti viaggi in Africa, i colori e le contraddizioni che solo in quell’immenso continente si possono trovare, “ero in Africa, non avevo nulla e mi sentivo pieno, sono tornato, avevo tutto e mi sentivo vuoto”, per passare poi fluidamente alla proiezione di filmati omofobi, “non c‘è più un posto dove stare”, per arrivare ad altri video tratti dalla quotidianità, dalla politica, dalla degenerazione dei valori e dal pregiudizio. A questo proposito, graffiante il video del papa Benedetto XVI attorniato da un gruppo di circensi che si spogliano davanti a lui prima di eseguire il loro esercizio, ottenendo il plauso di molte suore, uno schiaffo al moralismo e alla ristrettezza mentale della chiesa. Intelligente e particolare la scena con le scarpe, dove quattro donne si buttano, si litigano, ballano e si lanciano le numerose scarpe scaricate e abbandonate sul palcoscenico, un inno contro il consumismo visto come una rivoluzione dei costumi. Come abbiamo già intuito, non esiste una linea logica o cronologica in questo racconto-fiume di sensazioni e ricordi, la razionalità è rimasta fuori dal teatro, tutto è giocato sulle emozioni, sulla verità, sul cuore.
In un’improvvisata vendita all’asta di opere d’arte famose, entrano un uomo e una donna, visitatori del museo appena costruito, che si spogliano fino a rimanere nudi e impotenti davanti al potere dell’arte, per poi cantare una canzone in francese sul proscenio, ricordando il motto nazionale francese “Liberté, Égalité, Fraternité”. Delbono si concede anche molte citazioni teatrali, talvolta evidenti e quasi dichiarate (dall’”Amleto” di Shakespeare a “Il giardino dei ciliegi” di Checov), altre volte meno, come ad esempio quando entra un tavolo in scena, si respira l’attesa per il discorso che dovrà tenere una persona sulla sedia a rotelle, il famoso Bobò che ormai lo accompagna in molti spettacoli teatrali, finalmente questi arriva, parla al microfono ma il messaggio non è per niente comprensibile, Bobò è sordomuto, citazione de “Le sedie” del maestro del Teatro dell’Assurdo Ionesco. Anche questi “deja vu” sono rielaborazioni, suscitano emozioni e ricordi più che raccontare una storia, il messaggio in essi contenuto è quasi sempre subliminale e mai esplicito.
Ogni tanto Delbono lascia la sua postazione in fondo alla platea per andare egli stesso sul palco, a ballare, a sculettare, a contorcersi, a cercare di riempire quel vuoto con un po’ di quotidianità e spensieratezza. Questi momenti si esauriscono sempre con il suo ritorno mesto in platea, non senza una pausa riflessiva di qualche secondo sul proscenio, guardando il pubblico. Resta un vuoto difficilmente colmabile.
Il video del regista che tiene la mano della mamma malata ed ascolta le sue ultime raccomandazioni rappresenta il culmine di questo percorso.
Uno spettacolo anticonformista, che spezza tutti i legami preesistenti fra regista-attori-pubblico, che tocca il cuore, emoziona e disorienta. Talvolta si percepisce che si è andati oltre, come ad esempio in alcune scene di nudo integrale che sembrano messe lì solo a riempire uno spazio, e in alcune parti risulta più lento del solito, appesantendo la visione, ma in spettacoli come questi, in cui la componente emozionale è preponderante, i giudizi non possono che essere soggettivi.
Bravissimo Delbono, vera colonna portante sia dal punto di vista registico sia attoriale. Consigliamo di prendere un posto nei palchi invece che in platea, così avrete la possibilità di vedere com’è preso mentre legge, come gesticola e si gusta le parole che dice, e non semplicemente ascoltarlo fissando il vuoto che vuole farvi vedere.