[rating=3] Cosa spinge due coppie di ciechi al cospetto di un misterioso croupier? Moglie e marito e due fratelli con la smania di giocare una partita a carte del tutto singolare. Il vincitore potrà tornare a vedere. Si, ma per farlo dovrà superare una serie di prove, sette, come i vizi o le virtù, mantenendo saldo il controllo emozionale tra le ombre ripugnanti della società moderna.
Rivalità, tradimento, crudeltà, disprezzo, violenza, prevaricazione, paura della morte, sono le sfide racchiuse nelle carte che emergono come monolitiche cime da scalare. Il vincitore riacquisterà la vista, ma per “vedere” cosa?
Questo è l’ambiente dall’evidente valore simbolico di Alla luce, spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Era di Pontedera, fuoriuscito dalla drammaturgia originale di Michele Santeramo, dipanata nella regia di Roberto Bacci con gli attori della Compagnia Laboratorio di Pontedera.
Una luce metaforica, quella del titolo, frutto di una ricerca interiore più che esteriore, come il raggiungimento di una consapevolezza spirituale che sfocia nell’illuminazione orientale.

Come spiega Roberto Bacci «Se riuscissimo a vedere ciò di cui siamo capaci come individui, come società, come nazioni, come esseri religiosi, come ospiti di questo pianeta, come creatori di economie, molto probabilmente ci stupiremmo per l’orrore della nostra reale condizione.»
Così gli individui della commedia, accecati dal desiderio di tornare a vedere, una volta arrivati alla luce si trovano smarriti, di fronte ad un uno specchio riflettente il loro inconscio e un destino solitario e meschino.
Il testo di Michele Santeramo è in gran parte avvincente e inquietante, come la gara che ne nasce. Entra a fondo nelle pieghe dei personaggi, attraverso dialoghi feroci, spunti comici e giochi sadici, sviscera i vecchi rancori e il disprezzo sopito tra moglie e marito e il rapporto fatto di insicurezza e prevaricazione dei due fratelli. Due ambiti familiari complessi e perversi, con “ombre” che sovrastano la “luce” del calore umano. La meccanicità e la prevedibilità fanno capolino in una narrazione che a tratti perde corpo e che lascia al vago momenti salienti dello spettacolo, come il finale.
La messa in scena di Roberto Bacci, come ormai ci ha abituato, è minimalista. Pochi gli oggetti: due sgabelli, un tavolino, un leggio, il libro delle regole (in braille) e grandi carte da gioco disegnate da Cristina Gardumi raffiguranti le prove.
Lo spazio, orientato in verticale verso il pubblico, delimitato da tendaggi, è un non luogo, una proiezione mentale del subconscio, dove David Lynch potrebbe ambientarvi una scena da film.
La regia di Bacci invece è incentrata sulla corporalità e sull’energia sottaciuta, come la prova da superare nelle regole del gioco, con scatti d’ira (fin troppo strillati) e di ritmo (con qualche caduta) che percuotono una pièce, anche come performance attoriale, non sempre in luce.
La nota più lieta dal cast viene da Michele Cipriani, già apprezzato ne La rivincita (leggi la recensione), che dona quel pizzico di comicità e fragilità alla rappresentazione, trovando un’ottima amalgama con la dirompenza del fratello maggiore, interpretato dal convincente Francesco Puleo.