
Iniziamo con il suo ultimo lavoro a teatro,come mai ha scelto il testo “Segreti di famiglia” di Enrico Luttmann?
Perché ho subito riconosciuto le potenziali drammaturgiche di quest’opera. Erano due anni che l’avevo letto e che avrei voluto metterlo in scena e finalmente, quest’anno, in apertura di stagione, ci sono riuscita e oltretutto è una “novità italiana”. Inoltre ritengo che sia importante dare spazio ai giovani drammaturghi italiani, soprattutto quando scrivono come Luttmann, un testo così bello e attuale. E poi trovo importante e doveroso dare evidenza ai nuovi autori e offrire loro opportunità di emergere, perché i drammaturghi italiani ci sono e spesso vengono ignorati. In questo testo ci sono temi molto forti come la malattia, l’abbandono del marito, il figlio che non ha mai conosciuto il padre, l’ eutanasia. La protagonista, Grazia, ha un caratteraccio, ha fatto tanti errori nella sua vita che hanno penalizzato anche il figlio, ma con il suo humor e la sua ironia riesce a conquistare il pubblico. In questo spettacolo Ci sono i problemi della vita, ma il tutto è trattato con una tale “leggerezza”, in un modo così delicato che si ride tanto e infine ci si commuove.Vorrei che le potenzialità di questo testo le notassero sia i critici che il mondo del teatro, perché l’aspetto tremendo di questo paese è che spesso vengono premiati i già premiati.
Quando le è venuta in mente per la prima volta l’idea di “fare teatro”?
E’ buffo, quando te lo chiedono si tende a rispondere “ sin da bambino” , ma nel mio caso è vero. Il mio gioco preferito di bambina di quattro o cinque anni era fare le favole. Io non sapevo dell’esistenza del teatro, però facevo dei “ricattini” alle mie amiche, dicendo loro “gioco alle bambole se dopo facciamo le favole”, in cui naturalmente io ero Biancaneve, Cenerentola, Cappuccetto Rosso.Poi sono stata in collegio e sono diventata la prima attrice degli spettacoli che ci facevano fare le suore, contemporaneamente mia zia mi portava alla Scala a Milano: desiderava farmi fare la cantante perché avevo una bella voce! Ed io ingenuamente le dicevo sempre che quelle cose che sentivo avrei preferito “dirle” e non “cantarle”, allora non sapevo dell’esistenza del teatro di prosa.
A tredici anni poi decisi tutto della mia vita: la scuola che avrei fatto per poter lavorare. Infatti ho frequentato le magistrali, la mattina insegnavo e il pomeriggio e la sera andavo in accademia. E mi ero detta “vado in accademia e se non sono brava, cambio e faccio la giornalista e vado all’ Università d’Urbino”. In accademia mi han detto che ero molto brava e così eccomi qua.
Quale personaggio le piacerebbe ancora interpretare?
Avrei sempre desiderato interpretare è la “Fedra” di Racine. Quando lo pensavo ero troppo giovane ed ora sono troppo agée. E’ un personaggio davvero meraviglioso.
E tra le commedie quale ha amato di più?
“I Newyorkesi”, che abbiamo allestito al Vittoria e messo in scena, per la prima volta in Europa, nel 1998. Tre splendidi atti unici scritti da David Mamet (“Il colloquio”), Elain May (“Hot line”) e da Woody Allen (“Central Park West”), amo le commedie brillanti ben scritte. E poi “Rumori fuori scena” che ci portiamo dietro da trent’ anni è un “incubo”(lo dice ridendo), ma è un capolavoro della drammaturgia mondiale.
E cosa si augurerebbe per il teatro italiano?
Vorrei che in Italia cambiasse un po’ tutto. Quando vado all’ estero e vedo come funziona, mi vergogno di essere italiana. A Parigi uno spettacolo “medio” resta in scena tre mesi e bisogna prenotare con anticipo, altrimenti non si trova posto. Qui, quando uno spettacolo resta in cartellone quindici giorni, è anche troppo: il teatro italiano è maltrattato dalle istituzioni e dai cittadini stessi. Non se ne parla, in Italia il teatro è una “roba strana”.
E come sono, secondo lei, le condizioni per i giovani che vogliono fare teatro oggi?
Quando abbiamo cominciato, io e Attilio, ci lamentavamo del teatro di quei tempi e allora ci è venuta l’idea di tentare la grande avventura di organizzarci in modo da poter fare da soli un teatro come ci sarebbe piaciuto. Il primo contributo del Ministero fu di 17 milioni e a noi sembrò una cosa bellissima e pazzesca. Oggi questi ragazzi non riescono a farsi finanziare dalle istituzioni, eppure sono talentuosi e sono loro il futuro del teatro italiano. Per questo mi è venuta in mente l’idea della rassegna “Salviamo i Talenti – premio Attilio Corsini”, per dare ai giovani artisti uno spazio in cui si possano esprimere e per valorizzare i migliori, perché ogni tanto un po’ di meritocrazia ci vuole.