Possiede in sé tutte le possibili – inesplorate e fosche e cieche – gradazioni del buio, posto che esistano, questa Lucia di Lammermoor, Sposa in Nero ch’emerge pallida dalle polverose grigie inospiti scene disegnate dall’abile mano di Nicola Rubertelli: lacerti petrosi e cinerei d’una Scozia gelida e oscura e ostile da cui emergono i personaggi, dal bruno del fondo come in un quadro di Caravaggio, pur essi lividi e ferrigni, affogando i pur vividi colori dei bei costumi loro – di Maurizio Millenotti – in una sorta di bigia e cupa e smorta percezione, come se, pur intercettati dalla retina, finissero per venire filtrati ben prima d’arrivare alla corteccia, prima d’essere integrati, compresi, colti nella coscienza nostra; personaggi che amano la notte e l’assoluto bianco della luna – in tutta l’opera non c’è una scena diurna – larve, come le chiamerebbe il buon don Salvatore Cammarano, fantasmi che emergono dall’oblio dei secoli andati e persi, per recuperare un qualsivoglia spazio – un qualsivoglia tempo – nell’oggi del frenetico quotidiano. Ma questi bui fantasmi, pure, coltivano nell’intimo loro inusitate e inesauste voglie d’albe che mai non s’alzeranno, inespressi desideri di sole, ansie mordaci di calore, smanie di gioia che si sente e non si dice, bramosie di luce a dar sfolgorìo ai giorni loro. Il mondo di Lucia, (co)stretta nel buio d’un universo tutto maschile e armato di lame e sfolgorante d’acciaio – si guardi la bramosia ferina e sensuale con cui Enrico accarezza le armature all’inizio del secondo atto, si guardi al prete, che pure porta un’arma, sarà con quella che Edgardo alla fine s’ucciderà – è questo, nutre i propri rimpianti d’allucinate visioni di labirinti oscuri senza uscita, d’amori cresciuti sulle tombe desolate sperando in un futuro impossibile, di sospiri che si vuole attraversino i mari e le distanze e che invece s’infrangono contro la banalità del male, una falsa storia d’amore, un matrimonio combinato, la follia che salva, che preserva, che estingue per sempre.
Gianni Amelio, talentuoso regista che sempre ha voluto e saputo raccontare solitudini e paure, ben lo coglie, questo mondo; rispettoso, come dice, prima d’ogni altra cosa – com’è giusto! – della partitura, prima ancora che del racconto raccontato, del contesto, della vicenda storica, si mantiene un passo indietro, non cede neanche per un momento alla tentazione di aggiungere, lavora più che altro per sottrazione, si sente spettatore più che artefice. Il risultato è eccellente, l’ha potuto vedere chiunque abbia assistito a una delle recite che in questi giorni al mio bel San Carlo si danno della Lucia di Donizetti, l’opera arriva immediatamente al cuore, merito dell’Autore, certo, che ha profuso nella vicenda una quantità inconsueta di musica, tanta, bella e convenzionale, geniale e banale, ricca e povera, ma tanta, fino a invischiare e irretire il poverello che ignaro siede nel palco anonimo o giù in platea, fino a farlo vibrare come Emma nel racconto che ne dà Flaubert, fino a non avere “occhi abbastanza per contemplare i costumi, gli scenari, i personaggi, gli alberi dipinti che tremavano quando qualcuno camminava sulla scena, i berretti di velluto, i mantelli, le spade, tutte quelle invenzioni fantastiche le quali si muovevano nell’armonia della musica come nell’atmosfera di un altro mondo”. Ma se questo è sicuramente il mondo di Lucia, è proprio solo questo il senso della vicenda sua? Forse, se Amelio avesse osato un po’ di più, amato un po’ di più, si sarebbe accorto che ciò che rende Lucia un personaggio unico nella storia del melodramma – nella storia dell’arte – non è questo, perlomeno non è solo questo. Se ne accorge, invece, la Bovary: “una giovane donna venne avanti e gettò una borsa a uno scudiero dall’abito verde. Rimase sola e si sentì allora un flauto che imitava il mormorio di una fonte o il cinguettare degli uccelli. Lucia incominciò con aria austera la cavatina in sol maggiore; descriveva le sue pene d’amore ed esprimeva il desiderio di poter volare. Anche Emma avrebbe voluto fuggire dalla vita, andarsene in un abbraccio”.
Ecco. Lucia è unica semplicemente per questo, perché è la prima incarnazione dell’innamorata romantica e al tempo stesso l’ultima; perché se pure esistono, prima e dopo di lei, altre purissime e incontaminate eroine dell’etereo – le Amine, le Linde – esse sanno stemperare le loro passioni immerse in un mondo del tutto diverso, che non subisce le ferrigne e lugubri leggi degli uomini, ma quelle dei delicati paesaggi, del sole al meriggio, delle albe e dei tramonti incontaminati; e poi esistono, è vero, le altre, le Leonore, le Norme, le Anne, su su fino a Violetta, dolorose eroine inserite invece in un contesto tragico che è storia e fa la Storia. Com’è diversa, a ben pensarci, Lucia: ella è unica, perché simbolo stesso dell’amore vissuto in totale distacco dalla storia e da ogni altra umana passione, amore senza connotati, amore che ama contro l’amore stesso, quello stesso amore cui Emma Bovary aspirava, almeno per un momento, per lo spazio disperato di una rappresentazione, nell’esaltazione folle della speranza – della fede – che qualcosa possa esistere, al di là, oltre, nel buio della notte che ormai si ama perché icona e simbolo del proprio cieco universo. Ecco, forse un’ideale rappresentazione di Lucia dovrebbe tener conto di questo elemento di forte, totale, pregnante alienazione, di cui è, certo, rappresentazione e metafora la scena della follia, ma che corre per tutta l’opera, costituendone, nella assoluta e serafica ignoranza e incuria d’ogni possibile e pensabile realismo, il vero e più nascosto senso. Pur derivando da un romanzo storico, di quel Walter Scott che fu maestro e ispiratore del nostro Manzoni, Lucia focalizza l’intera rappresentazione sull’amore degli amanti – e come si riverbera tutto questo anche su Edgardo, anch’egli unico nella storia del melodramma, di ben altra pasta rispetto ai rutilanti e un po’ vuoti Manrico e Alfredo – in modo del tutto diverso da come, per esempio, comincerà a fare Verdi di lì a poco, che cercherà per tutta la vita, invece, il manzoniano equilibrio tra la Storia e le storie: poco interessa, al contrario, a Donizetti della Storia, di Guglielmo e di Maria, dei regni degli uomini e dei popoli, che rimangono molto sullo sfondo, e tuttavia rimarrà impossibile, anche per lui, ripetere il miracolo, cercando invano ancora tra le brume d’Inghilterra, ricreare la stessa stupefacente grazia incontrata un giorno.
Per la fidanzata di Lammermoor, di cui, son certo, Donizetti s’innamorò perdutamente, occorreva una caratura musicale unica più che rara: bisognava conferire a questa ragazza una centralità musicale che facesse risaltare la sua propria scrittura musicale, concetto che noi oggi racchiudiamo – con stolida sicumera – sotto la comoda etichetta di “soprano drammatico d’agilità”, che non vuol altro essere che la traduzione, sul piano strettamente musicale, di quanto detto finora: voce, cioè, che potesse esprimere, allora, nel pieno della temperie romantica, la robustezza drammatica del nuovo secolo che avanzava, rifiutando le eco stilistiche del Settecento leziosamente e artificiosamente fiorito, ma che tuttavia potesse – ed eccezionalmente, ed in sovrana misura – rivelare, nel contempo, estraneità e inaccessibilità al mondo terreno: il disegno complesso della vocalità di Lucia compie disegni di trascendentale agilità, pirotecnica, imprevedibile, spiazzante. Occorre una cantante di non comuni doti, è sempre stato così, per rendere al meglio il personaggio; il recensore ha assistito alla recita in cui Gilda Fiume ha incarnato Lucia: sottolineata da un lunghissimo applauso la sua scena della follia, ci ha fatto per lunghi tratti emozionare, grazie, certo, a tutto l’armamentario belcantistico che possiede, alle doti attoriali, di cui sicuramente è dotata, ma soprattutto al non comune dono – o disciplina – di sapersi autoregolare, sfuggendo sempre, ed è tanto più difficile quanto più talento si possegga, alla diabolica tentazione di mostrare la propria eccezionalità, scadendo così nel puro sfoggio di tecnica. Credo che, se questa edizione di Lucia, come tutti dicono, ha definitivamente consacrato Maria Grazia Schiavo come stella di prima grandezza – cosa del resto facilmente prevedibile, e perfino chi scrive aveva potuto agevolmente preconizzarlo, dopo averla ascoltata nell’altro Donizetti, nella solare Amina dell’Elisir al Petruzzelli l’anno scorso – ha pure avuto il pregio di rivelare questa giovane cantante, anch’essa napoletana, di cui è altrettanto facile prevedere un analogo percorso.
Anche Edgardo, come detto, partecipa dell’eccezionalità di Lucia: ci vuole un tenore che sappia essere, al pari della sua compagna, impetuoso e tenero al tempo stesso, fungendo tuttavia da contraltare alla sovraterrena grazia della protagonista. Confesso che alla vigilia qualche dubbio su Saimir Pirgu pure lo nutrivo, ritenendolo più adatto, dalle precedenti prove cui avevo assistito, ad altri personaggi, forse un po’ più convenzionali, che affollano il teatro d’opera; è sempre un piacere, in questi casi, dichiarare la propria insufficienza predittiva: la sua bella voce, che nessuno gli ha mai potuto negare, si è leggermente imbrunita, facendole acquisire quel tocco d’eleganza che sempre le era mancato: così nel duetto, all’ascensione irresistibile verso l’infinito del “Verranno a te sull’aure” di lei, ecco il sofferto, umano e terrestre accento di lui, in un crescendo d’intensità interpretativa, fino al finale, al “Non è più” senza singhiozzi, sapore d’intenso dolore tutto lasciato alla sola musica. Seguiamo da anni Claudio Sgura, dal San Carlo al Petruzzelli e viceversa, e il suo Enrico di Ashton non è che la felice conferma, per il baritono pugliese, di una acquisita, intensa maturità, sia sul piano musicale che interpretativo, disegnando con sicurezza un personaggio altero, senza cadute di gusto, d’emissione sicura. L’Orchestra del Teatro San Carlo ci è parsa, come sempre, ben all’altezza del compito, pur se trascinata, come in questa occasione, dal ritmo frizzante e ineluttabilmente rapido che la direzione di Stefano Ranzani ha voluto imprimere alla partitura, evidenziando pregi, insieme, e limiti: le redini dello spettacolo sono apparse sempre ben salde nelle mani del direttore, pur non mostrando certo grandi idee musicali, fino ad apparire, in certi frangenti, un po’ ruotinari certi passaggi, un po’ superficiali talaltri aspetti, fino ad sottolineare anche inevitabili incomprensioni ritmiche tra buca e palco, soprattutto con il Coro, che pure ha mostrato di saper recuperare con professionalità e sicurezza che deriva dall’esperienza. Ma tant’è, lo spettacolo comunque funziona, Donizetti è salvo, molti applausi alla fine accolgono tutti gli interpreti.