È con voce stentorea ma controllata — il suono del potere e delle certezze, dell’autorità e della tolleranza — che l’Araldo ammonisce di come Gott richtet euch nach Recht und Fug, perché i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le Sue: scende allora dall’alto, in quel preciso istante, una Macchina, un Marchingegno che in sé riassume l’inorganico e il vitale, minerale nel lucido prisma nero della pietra polita e specchiata che tuttavia si risolve, infine, e termina in una sorta d’organo che della carne nostra sembra possedere apparenza e sostanza. Come nel roveto ardente, Dio manifesta all’uomo la potenza Sua: scaturisce dal suo dito — ierofania del suo inequivocabile volere — un liquido argenteo, rovina per i malvagi, ristoro e difesa per gli eletti, che si va a raccogliere fumante in un gran cratere d’argento posto a terra.
Simbologia del Graal a parte, argento fuso o Sangue di Cristo che sia, se su Telramund, sul suo braccio teso, sulla mano e sull’anima sua, provocherà terribili ustioni, inestinguibile fuoco che arde e brucia, sul Cavaliere del Sogno quella infocata Sostanza si depositerà invece docile e protettiva come una corazza d’argento, manifesto inequivocabile della protezione divina. Siamo al Teatro Costanzi, l’Opera di Roma, che dopo cinquant’anni ospita di nuovo Lohengrin — progetto segnato da qualità internazionale in coproduzione con lo Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia e La Fenice di Venezia e una nuova apertura verso l’Autore — la scena è quella risolutiva del Primo Atto, l’ordalia che permette al protagonista di farsi accettare dal Popolo e dal cuore di Elsa, se pure a patto di un’arcana e sofferta anonimia.
Fu composto, Lohengrin, tra il 1845 e il 1848, punto di snodo fondamentale nella produzione di Richard Wagner: è, infatti, l’ultima opera della cosiddetta “fase romantica” e la soglia oltre la quale si fa strada, inarrestabile, il pensiero del dramma musicale wagneriano. Se, infatti, già con Tannhäuser veniva lentamente maturando l’idea di una forma più integrata di testo, musica e gesto drammatico e dove il canto non fosse più costituito da arie separate, ma scaturisse, invece, da un tessuto melodico continuo, in Lohengrin questa tensione verso una sintesi più organica, se pur non ancora pienamente compiuta, appare ormai evidente: proprio ieri sera meditavo, in teatro, di come in tante occasioni – il lungo duetto d’amore dell’Atto Terzo, così rovinoso nella sua conclusione come già mostri in trasparenza Siegliende e Sigmund (dich sah mein Aug, mein Herz begriff dich da) oppure quando certe sospensioni di trionfanti leitmotiv che, improvvisamente, inopinatamente, risolvano in vano interrogativo, molto più rivelandoci delle parole o dei gesti – sia già presente, se pure in nuce e ancora acerbo, il Wagner maturo del Ring e del Parsifal.
È dunque un momento cruciale per la storia personale e l’evoluzione artistica dell’Autore, ma, sorprendentemente, anche per la Storia in generale, quella con la S maiuscola: l’opera venne completata nel fatidico 1848, anno delle rivoluzioni europee a cui Wagner prese parte attivamente a Dresda, tanto che l’opera debutterà solo nel 1850 a Weimar, diretta da Franz Liszt, l’Autore in esilio dopo la partecipazione a quei moti rivoluzionari. Ma il suo ideale di rigenerazione culturale e politica della Germania aveva trovato sicuramente un riflesso estetico e simbolico nel personaggio del cavaliere del Graal, colui che viene da un mondo superiore per salvare e purificare.
Impossibile non notare, poi, come la figura di Lohengrin strettamente si leghi all’idea wagneriana di salvatore carismatico che dev’essere accettato senza essere compreso o, addirittura, come Siegfried e Parsifal, senza che essi stessi lo comprendano, almeno all’inizio, immersi in una necessaria e salvifica incoscienza – e dunque irresponsabilità – della propria missione e del proprio agire: questo tema ha dato origine anche a letture problematiche, specialmente nel Novecento, quando alcuni ambienti nazionalisti interpretarono Lohengrin come simbolo della missione spirituale tedesca e lo stesso Wagner, pur non formulando esplicitamente tali connessioni, alimentava però il mito germanico e l’idea di una rigenerazione estetico-morale del popolo tedesco.

È importante, credo, allora, distinguere – sentivo ieri sera sussurrare tra il pubblico come questa musica potesse aver incubato il nazismo – l’opera dal successivo uso ideologico: Lohengrin in sé non è nazionalista, è piuttosto mistico, spirituale, quasi neoplatonico, il mondo da cui proviene il protagonista non è quello del potere, ma della purezza del cuore. È opera, questa, infatti, della fede impossibile, dell’amore che può vivere solo se libero dal bisogno di possesso, dramma che si fa tragedia perché Elsa è umana: dubita, e dubitando perde ciò che ama, ed è anche uno spartiacque stilistico, perché da qui Wagner intraprenderà il cammino verso il teatro dell’idea totale, culminante in Parsifal, dove l’universo del Graal farà ritorno con ben maggiore, ormai acquisita, complessità filosofica.
È con questo mondo così complesso nella sua genesi e nella sua evoluzione che si sono cimentati ieri sera due esordienti nell’universo del Gran Mago Wagner, Damiano Michieletto alla regia e Michele Mariotti alla Direzione musicale, regalandoci uno spettacolo indimenticabile, in cui la musica sublime, che risuona incredibilmente come mai prima udita, si fonde a perfezione con la potenza visionaria del palcoscenico, ricreando un mondo d’astratte e inquiete storia e geografia, entrambe sospese in un laddove dall’acerbo e nitido splendore. La regia, come al solito, scava nel profondo non certo per cambiare significati e valori dell’opera, per esaltarne, invece, tonalità e riverberi, cercando e trovando motivi d’interesse per l’uomo che vive l’oggi, nella convinzione che in questo, per l’appunto, risieda il senso dell’immortalità dell’opera stessa: scrive dunque, il regista, insieme a Mattia Palma una drammaturgia che corre sicura, di volta in volta commento e illuminazione, riferimento e presagio, esaltazione e scoramento, in uno con le scene di rapito e profondo fascino di Paolo Fantin, i costumi d’ambigua ordinarietà di Carla Teti, le luci potentemente emotive di Alessandro Carletti.
Un percorso sicuro ma sinuoso nella sua indefinita inquietudine si snoda dunque alle porte e all’interno del Castello d’Antwerpen, le cui mura appaiono alla vista nostra, ancor possenti e chiare, come un’ininterrotta teoria di doghe di frassino — non era forse da quest’Albero che il giovane Wotan ricavò la lancia delle Rune, protettrice di patti, garanzia di sicurezza, come raccontano die Drei Nornen? — cercando, al pari della musica wagneriana, più che fermarsi alla superficie d’eroiche tematiche e astratti cimenti annunciati da puntuali ferme ed eroiche fanfare, l’umanità che dietro questi si cela, allo stesso modo di come dinamiche familiari e pressioni sociali, traumi ed educazione emotiva alla base d’ogni umana relazione si nascondano dietro i contorti trasalimenti dei leitmotiv nell’eterno mutarsi e divenire loro: il conflitto e la crisi, generatori — ultimi e possibili — di una qualsiasi ipotesi di giustizia e di felicità, anzi di ein Glück, das ohne Reu, una felicità senza rimorsi.
Così, ad esempio, nella scena all’inizio descritta, rinunciando all’uso d’armature e di spadoni in scena, si arriva dritti e senza paludosi orpelli al profondo senso di quel particolare e notevole scorcio, che è poi lasciare a Dio e al suo alieno giudizio le scelte fondamentali, con un linguaggio teatrale che diventa comprensibilissimo per l’uomo della nostra quotidianità, attingendo dal mondo dell’arte e del fumetto, del cinema e della televisione, fondendo, in quel caso, in insolito connubio, sollecitazioni, elementi e suggestioni dell’immaginario michelangiolesco e kubrikiano.
E certo non sfuggirà come il simbolo utilizzato per rappresentare l’origine stessa del Cavaliere, l’uovo nero e argento che cala dall’alto — di certo concettualmente ed esteticamente prossimo alla nera luna della Salome degli stessi Michieletto e Fantin di qualche anno fa — che tanto ricorre in variegate forme in questo allestimento, non sia poi cosi distante dall’uovo librato in alto nella Pala di Brera con cui Piero volle simboleggiare la mistica innocenza e la verità sospesa del creato racchiusi in un ovale, universale icona della nascita e dell’origine: attraverso le arti magiche di Ortrund diventa poi, quello stesso simbolo, sacramento del dubbio seminato ovunque, che attecchisce e alligna nell’animo di tutti fino alla rottura di quel fragile guscio e alla conseguente cecità che la sete di luce così spesso comporta.
Simboli antichi, dunque, e nuovi, da cui a piene mani attingere, isterie di donne che fuggono la loro follia d’immaginari rimorsi, rosari esibiti e sgranati come amuleti di religioni nemiche d’ogni fede, fango in cui seppellire scomode verità, acque che traboccano inestinguibili: la musica di Wagner — e sappiamo quanto il Mago di Lipsia fosse attento a questo aspetto, fino a progettare un teatro dedicato alle visioni grandiose del suo Oper und Drama — trova qui il suo degno compimento e restiamo in speranzosa attesa di un Ring di pari potenza evocativa.
Naturalmente questo è possibile anche perché giù nel mystischer Abgrund, a regolare tempi e intensità di progressioni ascendenti e luminose, c’è Michele Mariotti: e allora le cose che davi per scontate ti accorgi di ritrovarle pregne d’esultanti sorprese, come scritte il giorno stesso, nuove al tuo incredulo orecchio. Non ho mai ascoltato il Preludio prima di ieri sera, posso dirlo con sincero e attonito stupore, pur avendolo, le mie orecchie, tante volte sentito: ho ascoltato la nascita sonora del sacro, non tanto un cielo che si apre quanto un pensiero che prende forma, il Wagner del Direttore pesarese non pesa affatto, privo d’ogni gravame si libra con incredibile leggerezza ben al di sopra delle nostre teste, dichiarando con semplicità stupefatta la sua appartenenza ad un alieno ed etereo universo che prima non conoscevamo.
Libera, Mariotti, Wagner, in tal modo, da ogni wagnerismo che lo scorrere implacabile degli anni gravava di luoghi comuni, d’acciari e fardelli inutili e vani per risuonare, pienamente franco, infine, musica eternamente sorgiva e tersa dove veramente l’armonia è lingua di luce e fede: d’altra parte quest’opera vive di luce, trasparenza e purezza timbrica, il che è esattamente ciò che Mariotti ha mostrato di saper fare meglio. Così, lavorando come un pittore col pennello asciutto, riesce a mettere in evidenza linee nascoste, evidenziare timide sonorità finora ignorate, risaltare trasparenze che vivono di luci attenuate, mostrare indomiti e inesausti archi luminosi, cercando e sapendo trovare, in ogni dove, non già la teutonica massa sonora, ma, invece, la chiarezza delle linee e il respiro assorto dell’orchestra.
Nasce così, da questo perfetto connubio tra regia e direzione d’orchestra, tra teatro e musica, l’eccezionale prestazione degli interpreti, prima di tutto del Coro – diretto da Ciro Visco – uno dei pilastri di questo allestimento di Lohengrin: non solo “contorno” ma corpo vivo, parte attiva, presenza corale consapevole dell’importanza drammatica e simbolica dell’opera. Certo l’approccio appare più intimo, raffinato, drammaturgico che monumentale — scelta coerente con l’idea registica e musicale – la coralità rimane forte ma mai invadente, il risultato può offrirci un Lohengrin contemporaneo, credibile e profondamente umano, pur restando fedele al senso spirituale del testo.
Dmitry Korchak proviene da un percorso vocale improntato al repertorio belcantista e lirico-leggero (Rossini, repertorio francese, lirico) e questo emerge con forza: la voce del suo Lohengrin ha una chiarezza di linea, una cura del legato e una trasparenza timbrica che si adattano particolarmente bene alle scene più intime e poetiche dell’opera. È soprattutto nella scena nuziale con Elsa e nell’addio finale (In fernem Land) che la sua voce emerge con morbidezza, partecipazione e tenerezza bella e nobile, qui il suo impianto vocale più “leggero” diventa un valore, perché è coerente con la drammaturgia intima e malinconica di quel momento: una prestazione meno “eroica” e più psicologica, intimista, la sua vocalità — meno helden e più lirica — si inserisce coerentemente, evitando quella spinta eroica che spesso rischia di risultare “forzata” in un tessuto scenico calibrato sulla vulnerabilità, la fragilità umana, il dubbio, la tensione interiore.
Jennifer Holloway, nel ruolo di Elsa, rappresenta una scelta consapevole e coraggiosa: non si propone come la classica primadonna wagneriana, ma come donna reale, vulnerabile, conflittuale, capace di suscitare empatia e senso tragico: dove la partitura e la regia lo consentono, la sua voce, sensibilità e temperamento offrono una Elsa moderna, drammaticamente credibile, psicologicamente complessa. È un’interpretazione che mette in luce, in tal modo, un personaggio ipersensibile, umano, tormentato, perseguitato dal fantasma di un rimorso immaginato più che reale, che risulta, alla fine, molto efficace dal punto di vista teatrale e drammatico, probabilmente donandoci un’esegesi più immediata, emozionante e “moderna” per lo spettatore di oggi rispetto a una definizione idealizzata o “angelicata”.
Tómas Tómasson offre — come Telramund — una interpretazione intensa, spesso convincente per coerenza drammatica e psicologica, il baritono islandese privilegia carattere, presenza, crudezza piuttosto che perfezione timbrica: in questo contesto, dove la regia e la direzione musicale puntano su un realismo moderno e sulla fragilità dei personaggi, la sua performance — con pregi e difetti — risulta una scelta drammaticamente realistica e plausibile. Certo, la sua voce appare ruvida, disordinata, con una linea vocale irregolare che, a tratti, rasenta lo sprechgesang schönbergiano: ma è proprio questo, in fondo, a rendere il suo Telramund credibile, un antagonista realistico dell’angelicato Lohengrin, non cattivo stereotipato ma uomo tragico, impaurito, rabbioso, manipolato, sicuramente aggiungendo profondità drammatica e intensità psicologica.
È una Ortrud magistrale, potente, credibile, teatralmente incisiva, quella che Ekaterina Gubanova ci offre, forte, memorabile e coerente, capace di dare spessore non solo vocale ma drammatico, di incarnare la perfidia, la rivalsa, l’ombra che svela la fragilità della luce dell’eroina. Probabilmente il punto di forza assoluto del cast, la sua voce e la sua interpretazione riescono a unire carica drammatica, colore vocale e complessità psicologica, in sintonia con la lettura registica e musicale complessiva.
Sorprendente, per chiarezza del fraseggio, presenza espressiva, capacità di inserimento scenico discreto ma efficace, l’Araldo di Andrei Bondarenko, artista elegante e capace di svolgere un ruolo minore con professionalità, senza rubare la scena ai protagonisti, ma contribuendo alla coesione drammatico-vocale dello spettacolo.
E poi c’è naturalmente l’Heinrich der Vogler di Clive Bayley: mi sembra importante sottolineare questo ruolo nella cornice drammaturgica, non certo da protagonista, ma da punto di raccordo, che rappresenta l’ordine, l’autorità, ma anche la fragilità di un potere che viene messo in crisi. È anziano e canuto, il re, la voce risente del peso e dell’usura del tempo, è costretto addirittura al bastone: in un impianto registico che privilegia astrazione scenica, simbolismo visivo e tensione psicologica, questo ruolo non deve necessariamente essere funzionale ad una presunta solennità monumentale, ma fungere da àncora morale e drammatica.
Diventa in tal modo figura che è, sì, garante della legge e punto di equilibrio, ma anche espressione di vulnerabilità disarmata e imperfetto segno di potenziale crisi: in questo, tanto mi ha ricordato – trovando la quadratura wagneriana – l’Amfortas piagato re del Parsifal e la sua fisicità sconfitta, la sua autorità stanca, espressione di un potere che paga il prezzo del tempo e della decadenza e che attraversa la crisi esistenziale, politica e spirituale del mondo, quello del Graal, certo, ma pure il nostro, incontrando il quotidiano con la sua presenza intensa, simbolica, umanamente tragica, inducendo tutti noi ad una riflessione sull’esercizio problematico del potere, sul declino di uomini e cose, sulla colpa e sul rimorso, sulla – a volte impossibile – redenzione.