Home Libri Inchiesta In guerra contro la guerra. La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi

In guerra contro la guerra. La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi

Il Coraggio delle donne partigiane rivive a Lugano in Echi di Storia – Atis, per l’interpretazione di Anna Bonaiuto

La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi

Ballata per due voci e una fisarmonica. Così si presenta il reading di Benedetta Tobagi tratto dalla lunga cronaca de La Resistenza delle donne (Premio Campiello 2023, Giulio Einaudi Editore). L’abbiamo seguito nel corso del Festival Internazionale Echi di storia, organizzato da Atis, (Associazione degli insegnanti di storia del Canton Ticino) allo Studio Foce di Lugano, quest’anno ispirato alla parola Coraggio.

Storica, filosofa e scrittrice, la Tobagi ci porta a conoscere alcune delle miriadi di storie di donne che, a diverso titolo, abbracciarono la lotta partigiana, prima e dopo l’8 settembre, contribuendo alla nascita della Repubblica Italiana, sulle ceneri del fascismo. In scena, con lei, c’è Anna Bonaiuto che dà voce alle istanze di figure per lo più cadute nell’oblio, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, perché messe a tacere. Sono donne del popolo ma anche della borghesia, le cui testimonianze furono raccolte da una storiografia al femminile “ormai consolidata”, solo diversi anni dopo. Ad accompagnarne gli accenti c’è la fisarmonica di Giulia Bertasi, che respira con le loro parole, quasi ad essere il soffio vitale di una drammaturgia sonora. Sullo sfondo scorrono gli scatti, autentici o più spesso posati, a documentare un passato comprovato, che coinvolse circa centomila donne, con compiti e mansioni diverse, scovati in archivi pubblici e privati, grazie al contributo della storica Barbara Berruti.

Un canto delle mondine, echi di canzoni partigiane e di lotta, tanghi e romanze colorano con note rare il racconto: La lega (come non cantarla con le interpreti a voce spiegata), Addio Lugano bella, Dalle belle città, per citarne alcune, ci calano nell’atmosfera euforica e malinconica di quegli anni, ma fuori dalla retorica resistenziale. Le armonie si listano a lutto, quando scivolano ad intermittenza le immagini delle impiccagioni, pene riservate anche alle donne dal nemico. Per non parlare degli stupri di gruppo, a cui erano sempre esposte, taciuti per decenni.

Anna Bonaiuto © TILA
Anna Bonaiuto © TILA

Il destino di queste eroine che nessuno aveva visto arrivare, sembra compiersi l’8 settembre 1943, giorno di svolta nella storia d’Italia. È il giorno in cui il secondo conflitto mondiale volge in guerra civile, sotto le truppe d’occupazione naziste. È il giorno in cui molti bravi soldati finiscono allo sbando, nell’incertezza generale, e abbandonano l’esercito. Ma come? Aiutati da chi? Stuoli di donne, con ago e filo li rivestono da capo a piedi. Rivoltano abiti, tagliano coperte, cuciono vestiti con stracci e scampoli. Una cultura millenaria sembra averle preparate a questo momento. Ma questo non basta. Loro accolgono e nascondono. Fingono di fronte ai tedeschi e alle autorità, per l’atavica abitudine a dissimulare nelle situazioni di pericolo. E proteggono soldati non solo italiani. È un atto politico, di cui non sono ancora del tutto consapevoli, mosso da solidarietà per la comune sorte familiare o da quella pietas che identifica antropologicamente l’identità femminile. Le storiche Anna Bravo e Maria Teresa Sega leggeranno la Resistenza delle donne come una grande operazione di maternage, spiega Tobagi. Così facendo, rinunciano ad una taglia seppur misera, pagata per la consegna dei disertori.

Rischiano la pena di morte per appartenenza a banda armata o la deportazione in Germania nel campo di Ravensbrück. Di coraggio ne hanno da vendere, se non altro perché non sono state addestrate all’azione militare. Ma sono “nuvole pronte a farsi tempesta” e scelgono di prendere la loro vita in mano. Dopo “nulla sarà più come prima”.

Sono militanti comuniste e socialiste non nuove alla lotta politica, essendosi formate nel periodo del biennio rosso, a volte già schedate dalla polizia del regime fascista. Donne che non hanno potuto finire la scuola elementare, per essere mandate a lavorare in fabbrica. Alcune mantengono i collegamenti con l’Internazionale, su e giù fra Italia, Francia e Spagna, come Maria Broso. Altre passano per il confino, a Ventotene o a Ponza, dove continuano a formarsi a contatto con l’intelligencija antifascista (le aspettano Longo, Terracini, Ravera, Spinelli). Sono contadine, operaie, sindacaliste. Spesso autodidatte. Succede che siano figlie di padri onesti ed idealisti, i quali avevano mantenuto la schiena dritta, nonostante le bastonate e l’olio di ricino, fino alla morte. Così il padre di Cesarina Carletti, anarchico seviziato dai fascisti.

Benedetta Tobagi © TILA

Ma ad abbracciare la lotta, ci sono anche ragazze che non si muovono lungo una tradizione politica. Sono le donne cattoliche, “spinte a prendere posizione” di fronte “all’orrore per la guerra”. “È la guerra alla guerra“, chiosa l’autrice nel libro (da cui traiamo alcune citazioni). Ma sono anche ragazze di buona famiglia o studentesse, mosse a sdegno dalle discriminazioni e persecuzioni di cui dal 1938 saranno vittime i compagni ebrei, come racconta Tina Anselmi. A volte si impegnano per amore. Altre in tutta autonomia o addirittura contro la volontà del marito. Sono figlie, sorelle un po’ ‘agitate’, secondo gli stereotipi dell’epoca. Trovano l’orgoglio del proprio valore nella forza con cui madri in odore di matriarcato le hanno educate. Ma capita anche che le donne resistenti siano madri di se stesse nel darsi una nuova vita, accanto alle compagne di lotta, nel ruolo di veri e propri mentori.

Per alcune significa la prima uscita dal nido familiare. La Resistenza rappresenta allora il momento di “liberazione dai modelli femminili dominanti”, non solo nella società del regime. Assumersi delle responsabilità, prendere un posto nel mondo, riconoscere il proprio valore. Questa è la possibilità che sentono nel contesto della lotta partigiana.

Dal mese di novembre del ’43, si riuniscono nei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà (Gudd), organizzazione antifascista trasversale coordinata da Ada Gobetti e Maria Bronzo, che qualcuna di loro preferirebbe chiamare solo Volontarie della libertà. Si danno alla stampa clandestina e alla diffusione di manifesti e volantini. Organizzano manifestazioni nel periodo ’43/’44. Procurano cibo, armi, esplosivi per sabotare treni e binari, medicinali. Sono staffette, denominazione da leggersi in senso riduttivo, nel contesto della cultura patriarcale: dovrebbero essere definite piuttosto “ufficiali di collegamento”. Si muovono a piedi, in bicicletta, con gli sci ai piedi. Nascondono esplosivi negli indumenti o nel passeggino. Conoscono il territorio ed evitano i posti di blocco. Studiano le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie e la topografia dei giardini pubblici (dagli “elenchi semiseri” della veneziana Ida D’Este). Sono abili commedianti e affabulatrici nel trovare scuse, durante le perquisizioni e i rastrellamenti. Sanno usare il corpo e le collaudate arti della seduzione femminile (immaginiamole fingere il classico svenimento da pochade francese). Si vestono e si truccano di tutto punto per la loro andata in scena. Buona la prima. Ma nelle riunioni clandestine preparano le azioni di guerriglia e studiano, per rendere i loro diritti, un giorno, legge: il suffragio universale, la parità salariale e di genere.

La fisarmonica di Giulia Bertasi – foto Francesco Cuoccio

La Resistenza si profila così come un primo movimento di liberazione della donna. Molte rompono con la famiglia che non vede di buon grado la loro volontà di giocarsi un ruolo sociale del tutto inedito. Non ultimo si associano alle bande partigiane. Entrano nei Gap (Gruppi d’azione patriottica) e nelle Brigate di Giustizia e Libertà. Anche in questo contesto devono però superare i tanti pregiudizi, fisici e morali, che gravano da sempre sul gentil sesso. Sono tabù legati anche all’abbigliamento, come quello dell’indossare i pantaloni, appannaggio del genere maschile o di donne dell’alta borghesia. Ma c’è anche chi vi vede il segno di un’identità sessuale deviata.

E arrivano persino ad imbracciare le armi, come mostrano i riscontri documentali, qualche volta artefatti, per la costruzione del mito della Resistenza nel secondo dopoguerra. Possono infatti assumere funzioni di comando, in un’inversione dei ruoli. Soprattutto, sono donne giovani che canalizzano la loro energia nella lotta per la libertà, da patriote. Anna Bonaiuto ce ne consegna il ritratto, con timidi tratti vernacolari ed empatia, sull’esile cascata di suoni delle atmosfere d’epoca di Giulia Bertasi. Chi narra, con grazia e umorismo, non occulta il suo punto di vista, fino a restituirci un’amara riflessione sul presente. L’impatto emotivo è forte.

Impossibile citare l’elenco dei nomi di tante intrepide guerriere, seguendo le tracce della loro memoria. Di alcune sentiremo ancora parlare, grazie al loro impegno nell’azione politica come ‘madri’ costituenti, deputate, giornaliste, giuriste: Teresa Mattei, Lidia Menapace, Tina Merlin, Bianca Guidetti Serra. Lungo questa carrellata, sentiamo la voce di Marisa Ombra di Asti, dell’emiliana Vittoria Gandolfi o Valeria Vassalle di Viareggio, la piemontese Frida Malan o Tersilla Fenoglio, Gina Negrini di Genova. E vediamo i volti di tante altre che hanno scritto il loro nome nella Storia, mosse dal “richiamo a liberare la patria dallo straniero”, con o senza le armi. Volendo concludere con le parole della ricercatrice: “Dentro lo spazio della Resistenza, che è insieme civile e armata, c’è spazio per tutte, ciascuna col proprio sentire”. In altre parole: si può combattere ugualmente con la mitraglia o con il mattarello.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version
X